Una serra sospesa su Parco Sempione, la skyline e la madonnina a fare da panorama, un edificio artistico degno del luogo in cui risiede.L’ Osteria con Vista della Terrazza Triennale si presenta così. Nonostante le nuvole minacciose con Michela ci siamo accomodati nella parte esterna dell’ultimo piano del palazzo omonimo, in attesa di degustare la cena.
Dato il contesto, mi aspettavo una cucina sofisticata, dove una volta posata la forchetta ci si alzava ancora con i crampi allo stomaco. Invece perfette le quantità, sazi e felici.Con Michela (lei ci era già stata) ci siamo accomodati, accolti da uno staff davvero cordiale, e ci siamo fatti guidare dal tocco dello chef stellato Cerveni.Purtroppo per voi i miei piatti non hanno la medesima scenografia di quelli di pesce (non ne mangio), ma posso garantire l’eccellente sapore di materie prime ad alto tasso qualitativo.Apriamo con un omaggio della casa, passato di piselli con burrata, quest’ultima sin troppo liquida e annegata nell’olio, ma al gusto il tutto si amalgamava nelle giuste quantità, senza schiacciare i sapori dei tre ingredienti.
Ci siamo divisi come primo gli stracci al grano arso al pesto ai pistacchi, del quale non ho una foto decente, forse il piatto più caratteristico tra tutte le portate. Il sapore quasi amaro dei legumi verdi si scaglia con precisione contro il sapore dei pistacchi e del basilico, creando un’amalgama perfetta da accompagnare al sapore ruvido della pasta scelta.Metti insieme poi della carne cruda e tartufo e io sono pronto a qualsiasi cosa. Cattura la mia attenzione alla prima sfogliata del menu la, crollo completamente quando il cameriere annuncia essere il piatto migliore tra i secondi.Ora, su altre 4 opzioni disponibili, 3 sono di pesce, quindi non posso essere che concorde.
Sul dolce la mia scelta cade sulla crème bülée al tè nero, limone candito e sorbetto alle more. Trovo la mescola degli ingredienti ineccepibile. il mio palato si contrare e non poco al contatto con il limone candito. Effetto caramella zuccherata, decisamente fuori luogo in un piatto già colmo di zuccheri.
Parte della cucina a vista, le ampie vetrate, sembrano suggerire un ambiente desideroso di abbracciare gli spazi verdi circostanti, benché con la testa bassa sul cibo, la sensazione è quella di essere in un picnic piuttosto che con le gambe sotto al tavolo.
Questo per certo favorisce l’immersione nel contesto, assaporare il cibo non facendoci quasi caso. Il ristorante eccelle per stile e accoglienza, livellerei personalmente la scelta con l’aggiunta di qualche piatto esclusivamente vegetariano, ma credo che limitare poche pietanze per portata sia la scelta giusta per qualsiasi tipo di esercizio.Concludendo, si, ve lo consiglio.
P.s. non fatevi distrarre troppo dalle sciure milanesi imbruttite, o dagli arricchiti in fase di pavoneggiamento con giovani rampolle da sfoggiare in pubblica piazza.P.p.s. Sebbene abbia preso solo un calice, non inserito nella lista dei vini in carta, mi sono ritrovato costretto a fermare il cameriere per una foto di rito. Il vino scelto è tra i più buoni mai assaggiati in vita mia. Neo Zelandese, Sauvignon Blanc, il Bishop’s Leap ha un gusto fresco e leggero, particolarmente fruttato e non fa a pugni con tutta la carne rossa ingurgitata.
Probabilmente la cosa migliore da fare prima di andare a vedere un film Marvel su un nuovo super eroe mai apparso in pellicola è quella di cercare di scoprirne le origini cartacee.L’avevo fatto in gran parte con gli X-Men e con i miei 300 e passa numeri da collezione, ma non altrettanto con gli Avengers — che personalmente reputo un gradino sotto — o con Spider-Man. Quando ho sentito parlare di Ant-Man, attraverso l’annuncio della produzione cinematografica, ho deciso di raccogliere un po’ di documentazione, perlomeno comprendere da dove provenisse un’idea tanto bislacca.Il primo Ant-Man, l’originale Hank Pym, appare per la prima volta in fumetto nel 1962 in una storia intitolata The Man in the Ant Hill. È la storia di uno scienziato travolto dall’epifania della scoperta di un serio in grado di rimpicciolire le dimensioni di qualsiasi cosa, corpo umano compreso, ma soprattutto quella di riuscire a controllare qualsiasi specie di formica vivente.
Ho parlato di primo Ant-Man perché quello che vedrete al cinema è in realtà il successore di Pym (interpretato da Michael Douglas), Scott Lang (interpretato da Paul Rudd).Pym ci viene presentato come anzianto scienziato in pensione, in lento declino e al quale hanno appena sottratto l’azienda da lui stesso creata.Quello che non viene detto però è che il Pym nei panni di Ant-Man nei decenni passati ne ha combinate più di Bertoldo e la Marvel dopo avergli fatto prendere parte alla fondazione degli Avengers, gli ha dedicato ruoli marginali nei fumetti, quasi quelli di un anti-eroe.Polygon ha fatto un ottimo sunto del suo travagliato passato proprioqui, oppure nella versione italiana diBadComics.Passiamo al film, le premesse fondamentale da fare sono due. La prima, per questa specialissima occasione ho visto la pellicola insieme a Francesca che mi aiutò qualche mese fa nel dettagliatissimo approfondimento suThe Interview, la seconda è la location.Siamo entrambi in vacanza in Sardegna e l’offerta strutturale e architettonica è quella del cinema all’aperto, con tutti i suoi limiti dal punto di vista qualitativo audio-visivo.Ovviamente non abbiamo perso tempo e visto la compresenza ci siamo buttati nella recensione del film, ognuno col suo punto di vista.[embed]https://youtu.be/nbcbZlAbg9w\[/embed\]**ANDREAIl filmInaspettatamente ricco di scenette tipiche delle commediole americane. Una scelta in continuità con Avengers: Age of Ultron con Tony Stark nel ruolo del giullare di corte, qui lasciato al giovincello Scott Lang.Nei primi 30 minuti non sembra nemmeno di essere in un lungometraggio della Marvel, piuttosto nei momenti salienti prima di un colpo milionario di Fast and Furious, con piani studiati con dovizia di particolari per poter trafugare la tuta di Ant-Man con tecniche degne di MacGyver.L’inconsapevole protagonista è il ladruncolo Scott Lang, in cerca di riscatto dopo qualche anno trascorso in prigione. Raccolto sotto l’ala protettrice del magnate Hank Pym e la sua dubbiosa figlia Hope per essere trasformato in un super eroe.Niente di più tradizionale, Davide contro il Golia bramoso di potere e come sempre in grado di minacciare il mondo fanno da sfondo a un film d’azione mediocre, con tanti, troppi momenti poco approfonditi dove si sarebbe potuto caratterizzare maggiormente il personaggio di Scott.Tuttavia l’impepata di risate e il lieto fine lasciano uscire dalla sala tutti contenti e con applausi per un eroe poco conosciuto e balzato sotto i riflettori di punto e in bianco.Non andate via dopo i titoli di coda, ci sono [due sequenze importanti](http://www.badtaste.it/2015/08/13/ant-man-le-due-scene-dei-titoli-di-coda-nel-dettaglio/138956/) per l’apertura di un sequel e di un intreccio di storie con il filone Avengers.AttoriNutro simpatia per [Paul Rudd](http://www.imdb.com/name/nm0748620/?ref_=tt_cl_t1) con una stima radente allo zero, tuttavia credo sia stata una scelta azzeccata farlo uscire da ruoli tipicamente comici o melensi e metterlo alla prova con un vero film d’azione.Grande spazio e consacrazione di due attori resi famosi da serie televisive come [Bobby Cannavale](http://www.imdb.com/name/nm0134072/?ref_=tt_cl_t5), visto in Chef, ma soprattutto scoperto con l’egregia interpretazione di Gyp Rosetti in Boardwalk Empire e [Corey Stoll](http://www.imdb.com/name/nm1015684/?ref_=tt_cl_t4), l’underdog con un destino funesto in House of Cards.Michael Peña merita menzione a parte per l’interpretazione dell’idiota sempre presente al momento giusto.Domande e considerazioniCome ogni super eroe che si rispetti, anche Ant-Man ha una sua nemesi, non rappresentata da un nemico in carne ed ossa perenne come Joker per Batman o Skeletor per He-Man, ma piuttosto da una situazione costante come la kriptonite. Per Ant-Man è il pericolo di rimanere sprovvisto di quel siero in grado di riportarlo a dimensioni normali, se si restringe una volta in più del dovuto chi sta dentro la tuta è spacciato per sempre ritrovandosi in un paradosso spazio-temporale.Il film mostra come la moglie di Hank Pym sia morta proprio per questo procedimento durante il quale si è ritrovata a restringersi all’infinito entrando in un mondo sub-atomico. Si parla di fisica quantica, luoghi ancora poco esplorati dalla scienza contemporanea e cercata di rappresentare come un luogo psichedelico dal regista nel momento in cui anche ad Ant-Man tocca la medesima sorte, salvo poi salvarsi per il rotto della cuffia.La prima domanda è stata, ma una rappresentazione del genere è veritiera? Perché non esiste gravità in un eventuale mondo fatto di particelle più minuscole dell’atomo e vedevamo Ant-Man fluttuare come un novizio astronauta?*Mi sarebbe piaciuto vedere un’approfondimento maggiore sul profilo di Hank, perché ha creato questo tipo di particella, perché è voluto diventare Ant-Man. Spazio per un prequel? Vedremo tra qualche anno.
Vi lascio nelle sapienti mani di Francesca!FRANCESCATesoro, mi si è ristretto il capolavoroConsiderazioni preliminari. Riguardo a questo film, molte sono le osservazioni ma uno solo è il quesito:Tesoro, mi si è ristretto il capolavoro.Considerazioni preliminari. Riguardo a questo film, molte sono le osservazioni ma uno solo è il quesito: cosa ne sarebbe stato di Ant-Man se solo Edgar Wright non avesse abbandonato precocemente il progetto?Sì perché Ant-Man è la prima gestazione esplicitamente travagliata della Marvel Studios.Qualche avvisaglia l’aveva già lanciata Mickey Rourke con Iron Man 2, rilasciando dichiarazioni molto poco lusinghiere contro la produzione, ma suscitando poco scalpore visto anche il carattere notoriamente bellicoso dell’attore. Pare che al colosso Disneyiano la creatività, ma soprattutto l’autorialità, non vadano proprio a genio.Il tanto odiato Thor di Kenneth Branagh sembra essere l’unico ad aver seminato furbescamente dando frutti a lungo termine (ci ha portato il miglior villain di tutta la filmografia Marvel e ha introdotto il conflitto shakespereano, fonte inesauribile di idee per arricchire uno script, nella saga degli Avengers), tant’è che si vocifera che il regista inglese sia stato ricontattato per il prossimo Thor. Edgar Wright, giovane regista britannico che sarebbe miope non definire un genio, maestro nel giocare tra i generi azione, fantascienza, catastrofista e comico-demenziale, è a tutti gli effetti un Autore che scandisce a chiare lettere la firma sulle sue, poche, opere. E tuttavia, da grandissimo amante del fumetto e idolo indiscusso dei nerd nel pianeta, sembrava perfetto per confezionare un piccolo film senza troppe pretese di incassi ma destinato a diventare un istant cult per gli intenditori, per un piccolo eroe come Ant-Man.Ma evidentemente il conflitto genitoriale, con gli studios ripetutamente pronti a mettere mano sulla sceneggiatura di Wright al fine di poter inserire il lavoro nella saga degli Avengers, si è spinto a tal punto da determinare la rottura della collaborazione iniziata nel 2006. Sebbene Wright l’abbia cancellato subito dopo, il delizioso ‘selfie’twittatonel maggio 2014 che ritrae Buster Keaton (che all’epoca si dichiarava pentito di aver abbandonato la sua casa di produzione indipendente per passare alla MGM) accigliato mentre regge un Cornetto Algida (rimando alla trilogia del Cornetto di Wright) ha fatto il giro del mondo e spinto Joss Whedon (Avengers) e James Gunn (Guardians of the Galaxy) a esprimere la loro seppur pedissequa solidarietà.L’orfano è quindi passato alla regia di Peyton Reed (Yes Man, ironia della sorte?) e la sceneggiatura di Wright e Cornish è stata rimaneggiata da Adam McKay con il contributo di Paul Rudd (che avevano già collaborato per Anchorman), rendendo davvero difficile distinguere a chi attribuire ciascun elemento di comicità nei dialoghi, se alla coppia inglese o a quella americana. Edgar Wright è quindi il primo ma non l’unico genitore sfigato: il casting di Paul Rudd, che sembra essere stato fortemente voluto proprio da Wright, segna la svolta nella carriera dell’attore statunitense, relegato a ruoli comici fin dalla memorabile interpretazione del reporter ‘sul pezzo’ Brian Fantana negli splendidi Anchorman (2004) e Anchorman 2 (2013), non senza passare attraverso lavori dei molto discussi giocolieri della satira di costume (ma non solo) Judd Apatow (Molto incinta, 40 anni vergine) e Rogen&Goldberg (Facciamola finita). Tutti nomi e titoli quelli elencati fino ad ora che possono solo far eccitare un’amante della commedia come me. Paul Rudd è un ultraquarantenne che rischiava di terminare la sua carriera come attore comico senza sfoggiare come si deve le sue doti drammatiche e di scrittura. Problema risolto dato che ha firmato, come altri elementi del cast, un contratto multifilm con la Marvel.Terminato l’antefatto, passiamo a qualche considerazione di natura pratica:
Abbiamo visto il film nel cinema all’aperto di Santa Teresa di Gallura. Inutile dire che audio e video lasciavano molto a desiderare, che non c’era un posto decente per tutti e abbiamo dovuto assistere anche a qualche scenata, e che ci hanno fatto entrare a film iniziato impedendoci di comprendere il prologo e siamo usciti prima del termine dei titoli di coda senza poter apprezzare il secondo cameo. D’altra parte il clima ciarliero delle famiglie ci ha permesso di apprezzare la felicità dipinta nei volti di una folla di marmocchi, e questo a noi nerd abituati a usare la violenza contro altri nerd per accaparrarsi il posto migliore in sala Energia o all’iMax indubbiamente scalda il cuore.
Andrea (al quale potete riferirvi per l’inquadramento del lavoro nell’universo fumettistico) ha tentato di compromettere le mie capacità critiche invitandomi a cena prima del film e facendomi mangiare e bere benissimo e come un cinghialino. Ho ricevuto una telefonata prima del dolce e penso che questa pausa mi abbia salvato la vita.
Recensione vera e propria con qualche spoilerA mio parere quando si parla di un film Marvel c’è sempre poco da dire.Col rischio di attirarmi l’odio di tutti, questi film sono tutti uguali, anonimi, del tutto prevedibili e destinati all’oblio. Wright non poteva firmare una cosa del genere perché la sua filmografia, a differenza di quella della Marvel, non è improntata unicamente al profitto. D’altra parte si può dire che Rudd sia salito sul treno per esigenze di carriera e per l’opportunità, poi persa, di lavorare con Wright; mentre alla Lilly, che aveva dichiarato che non avrebbe più preso parte a un film dopo la Hobbit, evidentemente è stata fatta un’offerta che non poteva rifiutare. Ad ogni modo si può fare qualche considerazione sulla trama. Innanzitutto qui gli eroi, e gli Ant-Man sono due: Henry Pym (Michael Douglas) e Scott Lang (Paul Rudd), uniti da una classicissima relazione mentore-discepolo buona per tenere insieme la trama. Entrambi hanno una controparte, e compagna, femminile (Evangeline Lilly per Scott).Ant-Man era già operativo ai tempi della guerra fredda e questo lo pone di fatto come l’Avenger più anziano dopo Cap. Lo psicodramma familiare, il lutto, l’emarginazione, vengono attribuiti tutti a Michael Douglas per lasciare a Rudd la parte più fica. Anzi addirittura si può dire che la vicenda di Scott Lang sia in sostanza un’interpretazione in chiave comica (o una velata presa per il culo) dello stereotipo del cine-eroe Marvel: il difficile rapporto padre-figlia, parliamoci chiaro, un furbo come lui poteva risolverlo anche da solo e l’unico lutto da cui di fatto viene colpito è quello della formica Antony, momento ridicolmente peripatetico; e anche la battaglia finale col supervillain della questione, guardata da un normale punto di vista è solo una quasi silenziosa e del tutto inoffensiva caduta a terra di piccoli giocattoli per bambini. È come se Ant-Man e Lego Movie stessero discutendo tra di loro di quanto è futile e ridicola questa moderna cinematografia da green screen.Quindi, visto il tono molto cazzone del personaggio, l’unico modo in cui riesco a interpretare il riflesso melanconico nello sguardo di Scott Lang e il continuo rimando alla ‘seconda occasione’ è proprio in senso autobiografico di Paul Rudd, che ricordiamo ha messo mano alla sceneggiatura. Il villain calabrone interpretato da Corey Stoll, che somiglia in maniera impressionante a Telly Savalas (da non confondersi col calabrone verde di Rogen & Gondry, unico supereroe cinematografico veramente indipendente) pur nella sua noiosa prevedibilità, conserva qualche elemento di psicopatia e funziona bene: peccato per la sua precoce dipartita.Michael Douglas fa bene il suo lavoro e si diverte, sembra sia inarrestabile dopo Behind the Candelabra e verrebbe proprio da dire che il troppo cunnilingus, che come sostiene lui gli avrebbe fatto venire il cancro alla laringe, invece gli abbia fatto bene. Non c’è molto altro da dire: tutto fila molto liscio fino alla fine.Meritano una speciale menzione i dialoghi comici che fanno ridere (in particolare legati al personaggio di Michael Peña che rivedremo) e quelli che molto britannicamente non fanno ridere (come la conversazione iniziale sul furgone) e i cameo del Falcon di Anthony Mackie, altro grandissimo attore rimasto nell’ombra se non per piccoli capolavori come Lei mi odia. E proprio come i loro interpreti Falcon e Ant-Man escono timidamente dall’ombra per prendere il posto di Cap e Tony Stark negli Avengers con il ruolo di carabiniere eroico ma un po’ ciula e di bad boy. Sì perché Paul Rudd sarà il nostro bad boy, sicuramente geniale (anche se è stato nel mondo subatomico e ne è uscito senza saperci dire se sono particelle, membrane o stringhe, ma d’altronde è un ingegnere) e dalla battuta pronta. Speriamo stavolta scritta da lui e non da spinoza.it come quelli di Robert Downey Jr, che cominciavano già ad annoiare.E poi devo liberarmi di un peso dato che la recensione verrà pubblicata in ritardo visto che mia madre ha finito i giga per giocare a Burraco online e adesso dopo 12 ore di bestemmie devo prendere il suo laptop che sembra più un ordigno bellico e farmi un km a piedi per usare il wi-fi dei ‘vicini’: Paul Rudd è figo, dannatamente figo, come uomo e come artista; a differenza della giornalista di Anchorman io il profumo del desiderio lo sento tutto, e quindi seguirò con entusiasmo qualunque suo progetto.Nel complesso Ant-Man è un piccolo film dall’enorme budget diretto senza pretese, il cui (grande) elemento di interesse riguarda la sceneggiatura, che conserva qualche bizzarria atipica rispetto agli altri episodi della saga. Non si esclude che anche lo stesso rimaneggiamento dello script possa aver contribuito positivamente (sempre che si possa essere entusiasti di un rimaneggiamento) al risultato finale, ma è difficile a dirsi specie per me che non sono una fine esteta e l’ho visto in italiano. È stato per ora unflopcome incassi, valutato malino darotten tomatoes(ma d’altronde è l’opinione del pubblico, quindi degli americani) e benino secondo il metro di valutazionemetacritic(ma della critica comunque non c’è da fidarsi), ma il seme ormai è stato gettato e Paul Rudd è negli Avengers. Se non gli tagliano lingua e mani (che non sono strettamente necessari per una formica) ne vedremo delle belle.Avrebbe potuto essere un capolavoro da vedere e rivedere se fosse stato diretto da Edgar Wright, questo è poco ma sicuro. Ma d’altronde la formica Antony non è uguale a tutte le altre, difatti Ant-Man/Rudd non la chiama con un numero ma le vuole trovare un nome, lascia di sè un ricordo indelebile anche dopo la sua dipartita (contrassegnata da un’emotività davvero forzata)
“Ma sta sicuro che ne pagherai le conseguenze!”
Chi avrà scritto questa battuta che non ha nessun significato a livello di trama? I candidati sono quattro, e ognuno avrebbe avuto una buona ragione per scriverla. Sarà una teoria stramba ma mi viene in mente quando al liceo studiavo i prologhi dei poemi epici e mentre il poeta si prodigava nella doverosa leccata di culo al mecenate di turno tra le righe si leggeva: “dannato imbecille, questo è il prezzo che devo pagare per fare il poeta; ma sta sicuro che tra meno di dieci anni nessuno ricorderà nulla delle tue ridicole imprese mentre è chiaro fin da ora chi sarà immortale”. Se la mia teoria fila comunque gliel’hanno lasciato scrivere.
Stavo per andare a fare una pennica dopo le ore piccole di ferragosto, ma ho volutamente rinunciato — ho dovuto rinunciare — dopo la marea di troppo superficiali conclusioni del giornalista de Il Fatto Quotidiano Stefano Feltri su una diatriba di celolunghismo vecchia di decenni: le facoltà scientifiche sono meglio di quelle umanistiche, rovina, secondo lui, del futuro dell’Italia.
Nel primo post Feltri analizza un paper dove viene evidenziato come chi studia le materie umanistiche non guadagna, sarà un futuro disoccupato e, aggiunge lui, ha deciso di intraprendere una carriera di studi facilona perché non aveva voglia di impegnarsi in qualcosa di più complesso.
È giusto studiare quello per cui si è portati e che si ama? Soltanto se si è ricchi e non si ha bisogno di lavorare, dicono gli economisti. Se guardiamo all’istruzione come un investimento, le indagini sugli studenti dimostrano che quelli più avversi al rischio, magari perché hanno voti bassi e non si sentono competitivi, scelgono le facoltà che danno meno prospettive di lavoro, cioè quelle umanistiche.
I ragazzi più svegli e intraprendenti si sentono sicuri abbastanza da buttarsi su Ingegneria, Matematica, Fisica, Finanza. Studi difficili e competitivi. Ma chi li completa avrà opportunità maggiori, in Italia o all’estero.
WTF!?Forse sono un prodotto atipico della cultura umanistica italiana, lavoro per una delle più grandi aziende al mondo solo perché ho avuto culo e svogliatamente mi sono trascinato a fare qualcosa di facile e veloce?Ho respirato, ho riflettuto e mi sono detto andiamo a leggere questo benedetto paper catastrofista secondo il quale dovrei guadagnare poco o essere disoccupato. Fortunatamente l’aver conseguito una laurea umanistica, t’oh ma guarda un po’, mi ha permesso di imparare a leggere una ricerca e le ricerche si basano sulla statistica e su un campione di intervistati. E le ricerche producono risultati esplodendo i dati presi da campioni, ovverosia non necessariamente rispecchiano la realtà che raccontano.
Quello che mi sento di dire ai ragazzi italiani (ad esempio ho fatto lo stesso discorso a mio nipote di 18 anni) che stanno per scegliere la facoltà universitaria è lo stesso fatto da Marco in questo video:[embed]https://youtu.be/F0ngqDCImkQ\[/embed\]**Per trovare il lavoro dei vostri sogni dovete avere passione, lottare, combattere contro giganti così come dettagli piccolissimi, ma non permettete a nessuno di dirvi cosa non potete fare. No non è una frase da film, ve lo dico perché io lo sto sperimentando in questi primi 10 anni di carriera.Mi sono laureato in Scienze e Tecnologie della Comunicazione, dopo 3 mesi esatti dalla mia laurea triennale benché fossi già iscritto ad un Master ho trovato lavoro. Ci vuole fortuna e trovarsi nel posto giusto al momento giusto, sono conscio di questo, ma senza la passione e la fermezza delle scelte che ho fatto non sarei dove sono ora. Ci saranno fallimenti e delusioni, porte in faccia, ma anche tante, tantissime soddisfazioni. Ve lo prometto.Credete in voi stessi, alcune volte servirà accontentarsi, ma soprattutto non aspettatevi di guadagnare migliaia di euro il giorno dopo usciti dall’Università. Ci vuole tempo e dedizione, ma se si stabiliscono degli obiettivi li si possono raggiungere. L’Italia vi ferma? Uscite dal Paese e tornateci quando avete fatto quello che dovete.Se il lavoro non c’è, come dice Marco, non aspettate e createvelo. No, non bisogna aver studiato Economia o Ingegneria per creare una start-up, per farlo servono idee, spirito di sacrificio e collaborazione.Andiamo avanti. Nel secondo post** Feltri invece si sente di dare spiegazioni più approfondite al primo:
se guardo al mio percorso universitario con la logica dello studio del Ceps, come investimento finanziario è stato ottimo. I miei genitori, non certo senza sacrifici, hanno investito parecchio sulla mia educazione. Solo di tasse universitarie cinque anni in Bocconi costano circa 50mila euro, più le spese come studente fuori sede ecc. Non potevo accedere a borse di studio e sostegni perché riservati alle famiglie con redditi più bassi della mia o a quelle degli evasori fiscali, che risultano poverissime.
La nomea dell’università e — mi piace pensare — le conoscenze e le competenze acquisite mi hanno permesso di trovare subito il lavoro per il quale mi stavo preparando, cioè il giornalista
Posto che chi si laurea in Bocconi si sente sempre un gradino sopra gli altri. Il paragrafo su riportato mi ha dato da pensare. Il sunto che ne faccio è l’equivalenza ho pagato 50.000 euro di tasse universitarie = mi sono comprato l’accesso al mondo del lavoroAh si, seconda osservazione. Fare il giornalista non è una professione umanistica? Forse ho perso io qualche pezzo.Ma arriviamo al capolavoro finale:
Dal lato delle scelte collettive, cioè le politiche pubbliche, dovremmo tutti chiederci se ha senso sussidiare pesantemente università che producono disoccupati e formano persone che nessuno sente il bisogno di assumere o retribuire adeguatamente. Tradotto: meglio avere molte facoltà di filosofia e scienze della comunicazione o chiuderne qualcuna e magari dare più incentivi alla ricerca in campo chimico o elettronico? Parliamone.
Quindi chi lavora nelle PR, Marketing, Comunicazione; Digital PR, Social Media, Art, Copy, etc. etc. etc. che sono solo una piccolissima parte del mondo umanistico dovrebbero placidamente sparire lasciando il mondo del lavoro a chi si è acculturato a suon di numeri e teoremi matematici, tanto sapranno coprire le lacune lasciate dai primi.Certo.Chiedete ad un ingegnere di non essere analitico, poi vediamo come le aziende per le quali andrete a lavorare o le vostre, se ne creerete, una saranno in grado di comunicare efficacemente.
Nessuno dice che le materie che si studiano nelle facoltà che garantiscono redditi bassi e disoccupazione siano da disprezzare (con qualche eccezione, magari, ma di corsi inutili se ne trovano ovunque). Anzi, spesso sono interessantissime e cruciali per la nostra formazione come individui. Ma quello che forma l’individuo non necessariamente è utile anche a formare un lavoratore.
Ancora. Ancora una riflessione dove chi lavora deve essere una specie di disadattato costretto a spendere delle ore della propria giornata tirando fine mese facendo qualcosa che odia, solo perché è così che funziona l’Italia.Cazzate. Tutte emerite cazzate.La verità è che questo Paese necessità di qualsiasi tipo di figura lavorativa, disquisire sulla carenza di sforzi in ricerca scientifica ha poco a che vedere con la scelta della facoltà universitaria.Vero è che ce ne sono alcune in grado di avere un impatto più forte e immediato sul mondo lavorativo, il quale sta subendo una trasformazione tecnologica e digitale senza pari. Indi per cui sono anche io convinto che un laureato in Informatica abbia più chance di uno storico specializzato in guerre puniche.Ma questo Paese non andrà in declino per troppi laureati in Lettere o Filosofia, i problemi legati alla disoccupazione sono ben altri e completamente distaccati dal sistema educativo da scegliere a 19 anni.Caro Stefano, come vedi anche i numeri scritti nero su bianco possono non raccontare la realtà e cosa davvero succede in Italia. Perché come me conosco decine di ragazzi con il mio stesso percorso di studi o similari che ce l’hanno fatta, sono affermati e rifarebbero la stessa scelta ad occhi chiusi, considerando un passo fondamentale l’aver snobbato una facoltà non umanistica.
Benché mi piaccia da morire dormire, il mio corpo si rifiuta di farlo dopo una certa ora. Weekend qualche ora in più, ma non mi troverete mai a letto oltre le 10.30. A meno di essere un seguito a una serata particolarmente intensa 😜.Non arrivo in ufficio prestissimo, ma diciamo intorno alle 8.45 sono seduto davanti al mio monitor, spesso e volentieri da solo. Alcuni arrivano poco dopo, altri dopo un’abbondante mezz’ora. La bellezza della flessibilità del nostro lavorare da ovunque siamo ci dà ampio margine di manovra.Tuttavia non riesco a fare a meno di quei 20 minuti di completa solitudine, dove ancora le piramidi di email devono ancora iniziare e riesco a concentrarmi su come iniziare bene la giornata lavorativa.Ci pensavo durante la vacanza di settimana scorsa e a proposito ho trovato un paio di post recenti sull’argomento che mi hanno fatto sentire meno solo. Il primo di Fast Company. Qui si puntualizza molto sul discorso di inserire anche un’attività fisica tra le 7 e le 9 di mattina, ma qui davvero è una cosa più forte di me. Tuttavia, uno spunto in cui mi riconosco è il seguente passaggio:
According to researchers Mareike Wietha and Rose Zacks in an article published in the journal Thinking & Reasoning, working early in the morning, when you’re still groggy, promotes greater insight, problem solving capabilities, and creativity when compared to starting the day after 9 a.m., when you’re feeling more alert and awake
L’ altro di Mitch Joel, blogger e ceo di un’agenzia di comunicazione in Canada, da cui estraggo questo:
The early morning offers the sacred hours. The family is off to school. The hum of emails and meetings have yet to commence. The distraction of social media is a dull roar. It’s all about focus. The ideas seem fresh. The real work is done, because there are no interruptions. The caffeine from my morning coffee is just kicking in. The world is filled with boundless ideas and opportunities.
Si insomma. Le rotture di scatole a quell’ora ti danno quantomeno la parvenza di non essere ancora cominciate.
Scrivo queste righe pochi minuti prima di chiudere la valigia, consegnare la macchina all’aeroporto e ritornare in Italia.
Miami è la settima città degli Stati Uniti visitata dopo Los Angeles, San Francisco, New York, Las Vegas, Atlanta e Seattle. Ho prenotato a febbraio, decidendo di costruire la vacanza senza nulla di organizzato.
Quindi se cercate la vacanza con cocktail in mano, da passare sdraiato in piscina a dormire con gli occhiali da sole perenni e uno scocchiare di dita per chiamare “Garçon..”, questo post allora non vi riguarda.
Non vuole essere esaustivo, è solo la raccolta di quanto sono riuscito a vedere e vivere in 5 giorni.
Dove stare e come muoversi
Se potete permetterveli a South Beach credo ci siano alcuni tra i più costosi hotel degli Stati Uniti. E se comunque l’esser serviti e riveriti in vacanza è una priorità, meglio puntare ad un servizio simile.
Altrimenti AirBnBè la risposta. Questa la casa prenotata, è costata meno di un hotel a 4 stelle, ha un parcheggio per l’auto gratuito, è in un punto strategico per raggiungere qualsiasi luogo della città in non più di 30/35 minuti.
Il servizio pubblico funziona magnificamente, ma credo la macchina sia piuttosto indispensabile. I noleggi costano molto poco, specie se presi direttamente in aeroporto, ho speso 200 dollari e qualcosa prenotando con largo anticipo. Ma se vi accontentate di una utilitaria (va più che bene) con un centinaio di dollari la portate via per 5 giorni.
L’alternativa meno costosa è Uber, consigliato anche dai proprietari di casa, soprattutto maggiormente sicura rispetto ai pullman e ai tassisti.
Se optate per la macchina vi consiglio di scaricareHere Drive Maps. È disponibile per tutti i sistemi operativi e scaricando le mappe prima di partire sarà un perfetto navigatore anche in assenza di 3G. Idem se siete a piedi, le mappe di Here vi orienteranno senza bisogno di connessione.
Cosa vedere…Cosa vedere?
Beh, per quello esistono milioni di siti e guide turistiche. Affondate da lì a piene mani, ma dedicateci almeno una giornata intera se volete fare tutto da voi. Occhio alle fregature. Sono tante e ben nascoste.
Vi posso però dire cosa mi ha colpito:
South Pointe. All’estremo sud di South Beach. È l’imboccatura del porto ed è anche uno degli scorci migliori. Proprio di fronte c’è Fisher Island. Una delle poche isole naturali del circondario, la sola raggiungibile tramite traghetto. La sola dove per avere una proprietà devi avere almeno 3/5 milioni di dollari in banca.
Aventura Mall. Al momento penso il più enorme centro commerciale mai visto in vita mia
Wynwood. Il quartiere hipster. Sembra di stare nel posto più degradato degli Stati Uniti, svolti l’angolo e sei in una galleria d’arte a cielo aperto. Tutte le foto nella galleria qui sotto sono di questo quartiere.
IlfaroeKey Biscayne. Key Biscayne è un mondo a parte. Sembra di essere in un villaggio dove il tempo e fermo e la gente non sa bene cosa stia accadendo al di fuori di esso. In macchina si va pianissimo, tutti salutano tutti. Estremamente pulito, ci sono solo giovani mamme in giro a pascolare i pargoli mentre fanno jogging spingendo il passeggino. Alla fine dell’isola si arriva al parco dove all’estremità c’è un faro e due targhe commemorative messe in croce
La città è veramente enorme, questi sono solo alcuni dei quartieri, ma ce ne sono molti altri meritevoli di visita e approfondimenti. Anche fuori da Miami, come Everglades e la visita a qualche coccodrillo. Magari la prossima volta.
Lingue e turisti
Sai l’Inglese? Bene. Sai lo Spagnolo? Allora sei in una botte di ferro. Qui è forse più parlato dell’idioma anglosassone, ed è bellissimo sentire i diversi accenti. Soprattutto quando mischiano nella stessa frase le due lingue. Altro che spanglish.
Non so se fosse il segno dei tempi, ma i turisti con maggior affluenza sono i brasiliani e i russi. Staccano di gran lunga tedeschi e francesi. Non ho incrociato molti italiani, spariti tutti finito il ponte del 2 giugno.
Meteo Se dicono che pioverà a Miami, a Miami Beach non accadrà. O perlomeno non più a lungo di 15 minuti. Ecco magari se il tempo sembra guastarsi, buttate l’asciugamano vicino a uno dei baracchini sparsi per la spiaggia. Giusto per salvare i telefoni e oggetti di valore.
Musica
Nelle radio di Miami passano della musica terrificante. Ma brutta brutta. Hit di un anno fa almeno, sempre le stesse, oppure un costante mix di calypso e ritmi latini. Beh, c’era d’aspettarselo dopo tutto qui le influenze cubane e caraibiche sono fortissime.
Se volete viverla dal vivo sono stato al club LIV e nel locale caratteristico cubano Hoy Como Ayer.
Mangiare
Se amate il pesce, penso sia il posto giusto. Ma peccato, io non lo sopporto, quindi non potrò segnalarvi nulla di simile. Però qualche altro spunto posso lasciarvelo:
Colazione. Se sapete resistere a Starbucks o qualsiasi altra ipercalorica colazione americana abbiate in mente, allora recatevi da Delicious o Il Buon Pane Italiano. Sono gentili, hanno aperto da poco, nel primo c’è un caffè decente, nel secondo pane e cornetti come siamo abituati
Pranzo-Cena Se sei abbastanza fortunato, approfitta dei food truck sparsi per le strade. Altrimenti: Doma Bistro, BurgerFI, Joey’s, 900, Amami. Dipende cosa vuoi mangiare e in che parte della città ti trovi. Per tutto il resto c’è TripAdvisor.
Nonostante le immancabili artificialità ed esagerazioni tipiche americane — metà delle isole o pezzi di terra galleggianti di Miami sono artificiali, oppure ci sono ville in cui ogni palma importata dall’est Africa arriva a costare 10.000 $ l’una — Miami resta una città atipica. È una delle metropoli al mondo ad avere uno skyline così sviluppato e allo stesso tempo una spiaggia di così elevata qualità. Ed è probabilmente proprio perché ci sono così tante razze mischiate insieme e pochi puri e crudi americani a rendere Miami diversissima dalle altre grandi città degli Stati Uniti. C’è poca fretta, poca urgenza di arrivare, poco caos a parte un costante sottofondo musicale ad ogni block.
Sicuramente un buon compromesso tra relax e divertimenti.
In macchina ad esempio sembrano più o meno tutti rispettare i limiti di velocità, sarà per paura delle multe, ma raramente ho visto gente andare così piano in una strada a 8 corsie in mezzo a palazzi e attraversamenti pedonali.
Ci vivrei sicuramente per un paio di motivi. Fa sempre caldo in qualsiasi mese dell’anno. Potrei fare un bagno prima e dopo il lavoro.
Senza nulla togliere all’assuefazione da Oreo.
Ps. Per la serie il segno dei tempi: Ho portato la reflex, ma ho scattato ben poche foto. Tutte con lo smartphone. È brutto da dire, ma è la verità.
La serie TV “ Il Trono di Spade” ha una grande fortuna. Avere come super visore lo scrittore dei romanzi da cui trae ispirazione. Sebbene, come ha chiarito spesse volte attraverso il suo blog, lo show prenda pieghe differenti rispetto ai libri, arrivando comunque sempre allo stesso punto narrativo, non posso che essere d’accordo conquestaanalisi della scena finale dell’episodio 8 della 5a stagione:
But nothing beats the last 20 minutes of “Hardhome,” one of the finest sequence of TV I ever hope to see. I could go on for hours about how fantastically assembled the scene was — the rising tension of Jon’s negotiations with the Wildings, the partial resolution that gets viewer to assume the conflict is over, the impossibly slow build-up of the undead army’s arrival — it was amazing. But the episode’s real power — and what it has turned the White Walkers into — comes from the relentless series of instantly iconic, jaw-dropping moments that reveal the Walkers are an ever-more powerful, terrifying foe.
Sono qualche capitolo indietro nella lettura dei libri, tuttavia non riesco a non immaginare le scene simili a quelle viste in TV mentre le sto leggendo.Un bene? Un male? Non lo so.Lasciare a qualcun’altro l’interpretazione della mia immaginazione non credo sia del tutto una cosa spregevole, tanto più se questa supera ogni aspettativa.Nei romanzi si parla poco della vera minaccia che incombe sui domini degli uomini, la serie TV ha deciso di sottolinearlo pesantemente, mentre ancora non è stato fatto negli scritti. Ma è ora più che mai viva e presente, e salvo strani stravolgimenti molto difficilmente constrastabile con gli attuali mezzi a disposizione.
Si chiama Ava (che felice assonanza con Eva, il nome della prima donna creata da Dio), ha sembianze femminili, e se non fosse per il suo corpo percorso da cavi di fibra ottica a fatica la si scambierebbe per un’androide. Caleb è li per quel motivo, provare a constatare attraverso il test di Turing che in effetti è impossibile accorgersi della differenza.Il concetto fila, sta in piedi, e non siamo tanto lontani nel tempo da un’altra storia a cui ho dato molto spazio un anno fa di questi tempi, Her. Come in Her, Ex-Machina affronta il tema tremendamente attuale di quanto l’uomo sarà in grado di tenere a bada le “macchine” di matrixiana memoria, e se sarà in grado di controllarle nel momento in cui le intelligenze artificiali avranno piena coscienza di loro stesse.Se in Her le macchine decidono di ritirarsi dalla scena, in Ex-Machina abbiamo la sindrome alla base di Pinocchio. Nella favola di Collodi il burattino desidera più di ogni altra cosa al mondo di diventare un bambino vero. Allo stesso modo Ava è così avanzata da percepire di essere una macchina soggetta a miglioramenti, spegnimenti, modifiche e perdite di memoria. E farà di tutto per evitarlo.Questo si esplicita quasi subito, nei primi dialoghi tra Ava e Caleb:
AVAWhat will happen to me if I fail your test?
CALEB Ava -
AVA Will it be bad?
CALEB … I don’t know.
AVA Do you think I might be switched off? Because I don’t function as well as I am supposed to?
CALEB … Ava, I don’t know the answer to your question. It’s not up to me.
AVAWhy is it up to anyone? Do you have people who test you, and might switch you off?
La trama è fluida, prosegue spedita e le lacune individuabili in alcuni dettagli della stessa hanno il pregio invece di essere narrate senza soffermarsi troppo su di esse, rivelatasi poi una scelta stilistica molto acuta al termine del film.[embed]https://youtu.be/zg23CSUm1qk\[/embed\]Il tema è stato trattato in lungo e in largo nella storia del Cinema, tuttavia in Ex-Machina la semplicità con cui viene trattato aggiungendoci il restringimento del lasso temporale per cui ciò potrebbe effettivamente verificarsi lo presenta con la necessità di riflessioni maggiori su quanto potrà accadere da qui a qualche anno nell’ambito della robotica e intelligenza artificiale.Il finale è inatteso e spietato, ma freddo e plausibile negli avvenimenti. Risolutori quanto basta per far corrispondere Ava a quello che realmente è.Come è girato?Il campo di ripresa è sempre pieno, di oggetti, di persone, di androidi. Questo fa pari con le sensazioni claustrofobiche del bunker in cui si svolge l’oltre 90% del girato. Spazi stretti, angusti ove non si può sfuggire né da se stessi, né dalla realtà artificiale creata per allontanarsi da quella reale.È un pugno diritto in faccia, come a dirti “Dove stai andando? Tanto da qui non si scappa”. Chi ha diretto la fotografia poi ha fatto un sapiente uso di rimandi e similitudini. Davanti ad un quadro di Pollock, l’umano che gioca a diventare Dio sistemando il caos del mondo esprime tutta la solitudine di un arricchito in preda alle più becere manie di grandezza, senza uno scopo alcuno.
Concedetemi un ultimo parallelismo con Her. Come non notare anche in questo caso la splendida scena finale, dove viene scelto di chiudere con una serie di proiezioni di ombre di alcune persone intente a camminare.Assumono un significato molto potente, i robot, le intelligenze artificiali o qualsiasi altra diavoleria ci inventeremo per farla assomigliare a noi, altra non è che la proiezione di noi stessi.
Non ho giudizi sulla colonna sonora, in quanto non si è fatta apprezzare, così come le ambientazioni eteree e prive di connotazioni in grado di risaltarle.Gli effetti speciali sono così reali da sembrare quasi del tutto invisibili, morbidi e mai troppo accentuati. The Verge ha realizzato un breve documentario per raccontarli meglio:Resta una pregevole esecuzione, sono certo questa estate tornerà a far parlare di sé.Ps. se volete divertirvi creando una versione robotizzata di voi stessi c’è il sito: https://ava-sessions.com/
Quando ci si appresta ad analizzare una nuova proprietà intellettuale bisogna farlo con un giudizio caratterizzato dal più ampio respiro possibile. Vuol dire semplicemente che il debutto su PS4 degli sviluppatori “Ready at Dawn” necessita di essere trattato con i medesimi crismi di un rookie NBA. Evitate di prestare troppa attenzione alla durata dell’esperienza, evitate di tirare le somme troppo velocemente. Piuttosto provate a considerare The Order: 1886 come il primo passo verso un mastodontico racconto di un contesto di una Londra vittoriana diventata leggendaria nella memoria dei più “soltanto” per un anonimo Jack abile a squartare prostitute.Se per le altre esclusive Playstation delle quali ho scritto, vedasi The Last of Us, Journey e Heavy Rain, ho sempre avuto la sensazione di essere nell’estrema coniugazione possibile tra cinematografia e videogiochi, con The Order: 1886 ne ho avuta una diversa, forse meno coinvolgente dal punto di vista emozionale, ma è parsa chiara sin dall’inizio un’irrefrenabile associazione con la produzione letteraria del medesimo periodo storico. E come un libro di Mary Shelley o Dickens fatto di atmosfere scure, fumose e a volte fin troppo superficiali, questo gioco fa volutamente delle profondità altalenanti la sua principale caratteristica.Benché siano richieste sette ore scarse per incrociare i titoli di coda, il mondo in cui si viene catapultati è uno sprizzare di dettagli da far venire i brividi a qualsiasi produzione hollywoodiana. Ambientazione, luci, oggetti, arredamenti, così come vesti ed espressività dei volti collimano in una minuziosa esplosione descrittiva possibile soltanto durante la fruizione di un libro. Tuttavia, mi ha personalmente mi ha lasciato perplesso l’interazione tra gli stessi elementi.Durante il discorso ludico si viene trascinati verso un filo narrativo pre-confezionato, interagire con l’ambiente è pressoché impossibile così come gli stessi dialoghi. Tutto deve avvenire come stabilito dagli sviluppatori. Non è un free roaming, sebbene i nostri occhi bramino la rincorsa verso l’ignoto, ci viene chiesto di frenare le nostre pulsioni esplorative e di ascoltare. Il volere degli storyteller di Ready at Dawn, ma anche l’ottima colonna sonora quasi da Grammy.[embed]https://youtu.be/3moOI-ftPLI\[/embed\]Ascoltare una storia perduta quasi all’alba della civiltà, iniziata con la fondazione dell’Ordine dei cavalieri risalente ai tempi di Re Artù. Un ordine preposto alla difesa della città di Londra, ancora capitale del mondo moderno, dalla minaccia dei mezzo-sangue mostri metà uomini metà mannari. Come se non bastasse l’Ordine, la cui resistenza è preservata attraverso i secoli grazie alla Linfa Nera in grado di curare qualsiasi ferita e prolungare quasi all’infinito la vita dei cavalieri, si trova ad affrontare i primi dissidi interni fatti di corruzione e conquista di nuovi poteri.Vivremo un’epoca re-immaginata da una tecnologia ancora visionaria per quel tempo, ma utile agli scopi del nostro protagonista cavalier Galahad. Addirittura aiutato dalle prime invenzioni di un giovane Nicola Tesla. Questa astuzia narrativa consente al nostro personaggio immerso in uno shooter in terza persona di imbracciare armi dalle potenzialità difficilmente viste sin ora dentro un gioco per console, pur mantenendo quasi fedelmente quanto la “ferraglia” di fine ottocento potesse mettere a disposizione.Ed è così che sotto un cielo sempre più scuro a causa dei primi effetti dell’inquinamento all’alba causati dall’industrializzazione, siamo chiamati ad assistere ad un mix stilistico con pochi eguali nella libreria videoludica passata. I frammenti narrativi caratterizzati da filmati video, lasciano spazio in egual misura ai momenti d’azione. Quest’ultimi non vi impegneranno come ci si potrebbe aspettare, gli scontri con i vari nemici sono macchinosi, spesso ripetitivi, ma ben contro bilanciati dalla tipologia di confronto: quick-time event, stealth, scontri a fuoco, sniper.[embed]https://youtu.be/8hxz8IWWzt8\[/embed\]Per questo motivo è così complesso classificare e categorizzare The Order: 1886 sotto un’etichetta prestabilita. Il gioco fa della narrazione un intreccio di dubbi e intrighi in cui il nostro intervento non è atto ad orientare un fil rouge già tracciato, ma piuttosto risolutore, lasciando presagire così un’inevitabile seguito utile a comprendere meglio certi accadimenti volutamente non esplicitati.The Order: 1886 è un’opera d’arte. Un’opera prima. E proprio come quelle espressioni artistiche troppo complesse e allo stesso tempo spartane di difficile comprensione, il gioco prosegue senza sosta attraverso un filo sottile ove ai lati si rischia di scadere nell’eccessive lodi e dall’altra nella denigrazione assoluta.The Order: 1886 è come una donna, forse è questo il paragone migliore, ove nella sua complessa semplicità risulta difficile da comprendere per cui non resta nient’altro che amarla.
Il weekend appena trascorso ho fatto una full immersion cinematografica guardando prima Whiplash e subito dopo Birdman.Di solito scrivo di film quando davvero mi lasciano qualcosa, questa volta invece nessuno dei due è riuscito a sedimentare e sviluppare un ragionamento interessante sulle idee proposte o semplicemente su una differente idea di raccontare una storia.È stato strano vederli in sequenza. Il primo incentrato sul kit batteria da musica Jazz, il secondo con una colonna sonora fondamentalmente composta da una sola batteria (suonata proprio da un musicista Jazz, Antonio Sanchez).[embed]https://soundcloud.com/milanrecords/antonio-sanchez-internal-war-from-birdman-ost\[/embed\]Tuttavia, nonostante siano entrambi ben girati, con una buona fotografia, si perdono nei dettagli. In Whiplash i dettagli vengono sottolineati da un’inquadratura mostrando come diventino parte fondamentale del racconto. Ma restano fini a se stessi, non ci dicono di più della storia, se non arricchendo l’attenzione ad essi riservata dal personaggio principale. Birdman soffre dello stesso difetto. Ci sono tanti spunti, tante tracce da cui trarre spunto, ma che sembrano esaurirsi ogni volta su un binario morto e che invece avrebbero potuto portare la storia da tutt’altra parte facendola diventare soprattutto più interessante.Birdman non mi è piaciuto. È stato un buon esercizio di stile del piano sequenza (non del tutto veritiero) e con una solerte interpretazione di attori con molta esperienza, molto consci del messaggio da far passare attraverso le battute del film. Sono piuttosto d’accordo con quanto scritto da Loffio sul suo blog, proprio su quell’effetto legna accatastata ma mai arsa. Tanta carne, forse cotta e consumata con troppa fretta e con dei bocconi troppo grossi.
Ma Birdman non è solo un film sulla voglia di essere qualcuno, è anche una denuncia del “Genocidio culturale”, per usare le parole del film, messo in atto da Hollywood. È un film contro i critici che fanno questo lavoro solo perché non sanno creare, ma anche contro chi si improvvisa artista, è un film sul teatro e le sue follie, è un film sulla fama, ossessiva e assillante, che cresce quando smetti di essere un personaggio e diventi il meme di un social network.
Per certi versi Birdman parla di chiunque abbia un blog, un podcast, una pagina Facebook, un account Twitter, uno spazio su un giornale, in teatro, in radio o in televisione. Parla di quella fastidiosa voglia di non voler mai scendere dalla cresta dell’onda, di sperare che ci sia sempre qualcuno a rendere la nostra vita un successo col suo acclamare.
Il problema è che proprio volendo essere tutte queste cose, finisce poi per non sviscerare nessuno dei vari temi come meriterebbe. Il regista sembra limitarsi ad accatastare ottime idee come fossero legna per il falò, senza mai incendiarle. L’unico vero monologo riguarda il bisogno di voler essere famosi, per il resto i personaggi e gli argomenti rimangono in sospeso, e ogni qualvolta in cui si potrebbe dire qualcosa di più arriva un bel movimento di macchina o una scena d’impatto che svia l’attenzione.
Non è semplice trasformare in racconto filmico momenti significativi dall’alto impatto narrativo. Così come non sempre sono necessarie 2 ore di film per poterle mettere in scena. La grandezza dei migliori registi probabilmente sta proprio lì, ma quando sembra di avere la sensazione di fare il morto su uno specchio d’acqua molto grande, invece di immergersi per ammirare la barriera corallina, allora lo storyteller si dovrebbe prendere tutto il tempo necessario, sfidando magari le regole imposte dal mercato cinematografico.
Se dovessi pensare al mestiere della vita, oltre a scrivere di videogiochi, probabilmente sarebbe quello di dedicarmi alla critica gastronomica. Sebbene abbia, con leggero o scarso successo decidete voi, con il passare degli anni affinato le tecniche di scrittura, non credo di essermi mai applicato a sufficienza ad un’attività (Visintin afferma non essere un mestiere) per la quale non sento ancora di non possedere sufficienti terminologie a vocabolario.Strano a dirsi, avendo in famiglia uno chef.Ad ogni modo proverò, quando possibile, a farlo più spesso. Nonostante i 16 kg. persi di recente, mangiare bene resta ancora nella top 5 dei piaceri della vita. Dopo La Cantina della Vetra e il Ristorante Macelleria Motta è la volta di U BarbaOsteria Genovese e Bocciofila.La mia famiglia, e io di conseguenza, è particolarmente legata alla Liguria e alla città di Genova. Tra i tanti motivi c’è proprio quello culinario. Tuttavia abitando nella provincia milanese non sempre è possibile salire in auto per un pranzo fuori porta e ritorno. Perciò l’aver trovato qualche anno fa U Barba proprio a Milano è stato come avere un pezzettino di costa ed entroterra a mezz’ora di auto da casa.
Il locale
Ricordo. Si ricordo non appena la guardo la prima volta in cui misi piede da U Barba, qualche evento dell’Internet, di quelli che si facevano anni fa e dove ci si trovava tutti a darsi grandi pacche sulle spalle senza nemmeno conoscere il vero nome dell’altro. 2010 Social Media Week. Di fronte alla bocciofila, tornando all’interno del ristorante si scopre anche l’area estiva, sfruttata con le dovute coperture anche durante l’inverno.
Come si mangia
Bene sarebbe troppo poco. Troppo riduttivo e banale. Ma è così e da aggiungere ho solo questo. Vi deve piacere la cucina ligure, leggera e robusta allo stesso tempo, composta da verdura e lievi fritture così come gusti particolari, ma sempre delicati.Questo è il menu (si ingrandisce se ci cliccate sopra) da gennaio ad aprile escluso. Varia di poco, come è facile intuire dal sito, con il cambio delle stagioni, in modo da restare sempre fedele a se stesso con il passare del tempo. Pochi i piatti proposti, scelta importante, garanzia di eccellenza. I prezzi contenuti sono ampiamente adeguati in rapporto alla qualità.
Le attenzioni particolari vanno verso la scelta di prodotti liguri selezionati: l’olio di olive taggiasche di Dolceacqua, il vino Nostralino imbottigliato a Portofino o il basilico fresco utilizzato per il pesto.Come vedete la scelta è ampia sia per i carnivori che per gli amanti del mare, ma appartenente alla prima categoria sento di consigliarvi una porzione di focaccia al formaggio (ho abitato a Recco per oltre 11 anni, fidatevi la sanno fare), seguita da una di pansoti in salsa noci.
Ecco, qui mi scuso perché so di aver commesso un errore grave. Del resto non occupandomi di cibo su questo blog non ho fotografato nient’altro del cibo mangiato se non il primo, ma per la semplicissima ragione di una famelica attrazione da soddisfare entro pochi secondi. Cercherò di fare meglio la prossima volta. Fortuna sul sito ci sono fotografate già tutte le pietanze.Consiglio di iniziare con la combinazione di due ordinazioni, le porzioni sono sempre abbondanti e in grado di appagare anche gli appetiti più grandi. E poi ci sono sempre i dolci, forse poco tipici liguri, ma ottimi lo stesso.Infine, per dare un giudizio conclusivo a una delle mie destinazioni preferite e dove vado ogni qual volta sono alla ricerca di sicurezza, voglio adottare il sistema di valutazione utilizzato da un collega di Microsoft, Andrew Kim, sul sui Minimally Minimal. Invece di usare dei voti per i suoi luoghi culinari, utilizza delle stelline.★★★☆A U Barba sento di darne 4 su 5, è per certo uno dei pochi posti sul quale metterei sempre la mano sul fuoco, ma da qui ad avere un’esperienza mistica ce ne passa. Quindi sfrutterò quell’ultima quando ne varrà davvero la pena.Il sabato sera tende ad essere un po’ affollato, vi consiglio la domenica a pranzo e chissà che non ci si veda lì la prossima volta. Da provare almeno una volta nella vita, perché pochi locali sono in grado di esaltare le caratteristiche regionali dei piatti senza dimenticare le proprie origini anche se creati e consumati da tutt’altra parte.