The Interview: tutti i numeri del box office, perché ha deluso gli americani e la recensione

Con Francesca abbiamo iniziato a discutere su Facebook del film e di tutti gli argomenti che gli girano attorno.Francesca De Nard è una mia cara amica, è un medico specializzando, e credo sia la persona più appassionata di cinema di genere e di cinema horror che io conosca.La migliore cosa che potessi fare, visto che non ho ancora visto il film in questione, è stata quella di concederle tutto lo spazio necessario per scriverne. Le ho chiesto così se volesse essere ospite sul blog.Per iniziare bene il 2015, troverete le sue riflessioni su The Interview di seguito. Grazie Francesca!

L’anno 2014 verrà ricordato come l’anno dei leak. Ma leak de che? Le tette di Jennifer Lawrence, i nomignoli razzistelli appioppati a Obama, le canzoni di Lana del Rey pubblicate con anni di anticipo.. insomma siamo tutti costernati. Un po’ perché siamo a fine anno, un po’ per le ripercussioni diplomatiche, sicuramente ricorderemo The Interview come il caso più stressante in assoluto.Riassumendo: Sony produce un lungometraggio, scritto e diretto da Rogen e Goldberg. Questa la sinossi: un giovane anchorman in carriera (Franco) che mette in scena la peggior forma di giornalismo-spazzatura (un po’ alla Barbara d’Urso per intenderci) e il suo produttore (Rogen) vengono invitati nella residenza del leader nordcoreano Kim Jong-Un (Park) per registrare un’intervista. La CIA ne approfitta per invitarli ad assassinarlo.Ad un mese dal lancio del film (previsto per il 25 dicembre negli States) Sony subisce un attacco dal gruppo di hacker che si fa conoscere come Guardians of Peace; i leak riguardano diverse produzioni ma viene fatto da subito un riferimento specifico a The Interview. Il tempo passa e a una settimana circa dal lancio, Sony, senza consultare alcun governo e senza che le venga imposto, decide di cancellare il film. Motivazione ufficiale: ordine pubblico (riporto le testuali parole degli hacker: ‘ricordate l’11 settembre’). A seguire, anche la CIA rilascia un comunicato ufficiale in cui ammette possibili legami tra gli hacker e il governo di Pyongyang. Il giorno successivo Obama dichiara ‘sbagliata’ la scelta della Sony e usa toni molto più cauti, senza accusare esplicitamente la Corea del Nord, che nega ogni coinvolgimento anche se definisce ‘giusta’ l’azione degli hacker.A questo punto il mondo dei social si scatena; è già il momento di notare che la retorica sottostante a questo tipo di indignazione è fortemente pro-americana. Franco e Rogen sono due eroi; gli Stati Uniti sono portatori di libertà; gli Stati Uniti non si fanno piegare dalle minacce dei terroristi asiatici (a questo punto val la pena di ricordare che Sony è una società giapponese, e che gli autori del film sono canadesi). La Stampa internazionale parla (correttamente) di oltraggio alla libertà di espressione e presto quello di The Interview diventa un caso senza precedenti. I toni però sono sempre quelli della guerra fredda mediatica. Anonymous dichiara: Sony, vi avevamo avvertiti, hackerare i vostri database è un gioco da ragazzi. Tra gli esperti di informatica molti scettici ritengono quasi impossibile il coinvolgimento del governo nordcoreano nell’attacco, ritenendo più probabile che la causa dei leak risieda in un disordine interno all’azienda, probabilmente una vendetta personale. Paulo Coelho (che tutti conoscerete grazie a wikiquotes) si propone di acquistare i diritti del film ad un prezzo irrisorio (100.000 dollari) per poi pubblicarlo su Netflix a disposizione, gratuita, del pubblico di tutto il mondo.Sony, già fortemente danneggiata dall’attacco degli hacker (Business Insider stima perdite di 100 milioni di dollari tra indagini, migliorie tecnologiche e licenziamenti) non è in condizione di poter accettare l’offerta di questo figlio dei fiori e decide di tentare il tutto per tutto sfruttando, tra le altre cose, l’enorme notorietà che la pellicola nel frattempo ha raggiunto. La vigilia di Natale arriva la notizia dell’imminente uscita del film in un numero limitato di sale indipendenti (331, a fronte delle 3.000 previste originariamente) e della sua pubblicazione on demand su diverse piattaforme online, novità assoluta per una grande produzione cinematografica. Il film nelle sale non guadagna una cippa (2,8 milioni), ma online è subito record mondiale: 15 milioni di dollari nel solo week-end di Natale. Ecco quindi il clamoroso retro-front della Stampa (e sui social): terrorismo, dicevano, e invece è tutto marketing! Oltretutto per un film di merda! E noi che abbiamo sprecato tutto questo inchiostro pensando fosse un film impegnato. Insomma, un’epidemia di nannimorettite (un’infezione senza dubbio gastrointestinale) sotto Natale, non riesco a immaginare niente di più terrificante. Piovono anche i ‘ve l’avevo detto’ da parte dei finora astenutisi dal commentare, scagliandosi contro l’umanità come delle piaghe bibliche.Alcune rapide considerazioni su ciò che riporta la Stampa italiana. Per quanto riguarda gli articoli pubblicati dai principali quotidiani, penso sia il caso di fare alcune premesse che cercherò di schematizzare.

  1. Nessun giornalista sembra conoscere i lavori precedenti della coppia Franco/Rogen
  2. Il film non è ancora stato distribuito in lingua italiana; il più delle volte è esplicitato (e anche quando non lo è è ragionevole supporlo) che la persona che scrive non ha visto il film, ma riporta un riassunto di un’accurata (e orientata) selezione di recensioni scritte in lingua inglese

Quindi, visto e considerato che chi scrive non sa di cosa sta parlando, tra questi chi ha l’ambizione di riportare un giudizio sul film (Repubblica, Il Fatto Quotidiano, e diversi rotocalchi di moda che evito di elencare) lo stronca, definendolo puerile, volgare, semplicistico, nemmeno troppo divertente (parafrasando, ironia della sorte, una delle mail dei produttori pubblicata a seguito del leak). La motivazione principale della bocciatura è comunque il fatto che i contenuti non sarebbero all’altezza della bufera mediatica che si è scatenata attorno alla pellicola. Alcuni si spingono a definirlo ‘deludente’ per gli spettatori americani, rifacendosi ai dati di un sondaggio che se ho capito bene si è svolto in questo modo: hanno chiesto agli spettatori se secondo loro il film suscitava sentimenti di patriottismo o meno. Io forse non sono un giornalista, ma in tutte queste considerazioni non scorgo la minima valutazione tecnica o artistica di un prodotto che andrebbe preso come tale. E se penso a un cinema che debba suscitare patriottismo, mi viene in mente Goebbels.Concludo con l’ultima della grandi critiche mosse dalla Stampa (e dai social) al film: è stata tutta un’operazione di marketing, questo sarà il film più scaricato di tutti i tempi. Furbi vero? Ma a chi pensano di darla a bere? Non certo a noi, noi siamo dei dritti! Quindi tutti quelli che si sono scatenati sui social hanno fatto una pubblicità inconsapevole! Che tristezza.Ecco, peccato che non sia così semplice. E’ vero, Sony ha fatto da sé, ed è vero, in soli 4 giorni The Interview è stato il film più scaricato della storia. Ma si tratta anche di una modalità di distribuzione finora riservata ai film indipendenti, e non è stimabile in maniera certa quanti saranno gli incassi alla fine (anche se le previsioni sono ottime: secondo Mojo box office 90 milioni di dollari). Quando una persona paga per un film in streaming, magari lo si guarda in 10. Se paga per il download (modalità che ha prevalso nettamente in questo caso), possiamo potenzialmente moltiplicare all’infinito le visualizzazioni. E non ho parlato della pirateria. Mi limiterò solo a dire che il film è già disponibile sottotitolato ed in ottima qualità. Quindi, dato che tutti gli infervorati dalla sacra fiamma del patriottismo verosimilmente hanno già comprato il film, io ipotizzo che una volta affievolita l’ondata emotiva le vendite crolleranno (iTunes o non iTunes). 18 milioni di dollari in un week-end sono comunque meno dei 20 incassati da Notte al museo 3, un’altra commedia demenziale negli stessi giorni. 20 milioni che riuscì a incassare in un week end anche Facciamola finita, il precedente film della premiata ditta, che non fu nemmeno lanciato sotto Natale (e raggiunse i 100 milioni di incasso totale, superando anche la migliore delle previsioni del suo fratellino minore). 20 milioni di incasso erano l’obiettivo di Sony, e non è stato raggiunto. E The Interview deve arrivare a 75 milioni solo per starci dentro coi costi (44 di produzione e il resto in promozione). Se sommiamo i 100 milioni di debito della Sony siamo ben lontani dall’obbiettivo e comunque, con tutta questa pubblicità negativa, sarà ancora più difficile. Se è stata una mossa di marketing da parte di Sony, con tutto il rispetto finora ha fatto schifo.

Sembra piuttosto una strategia di salvataggio dell’ultimo secondo, un piano B, o forse anche un tentativo di sperimentare una nuova strategia di marketing, che anche secondo gli esperti di finanza si è dimostrato fallimentare, sia in senso assoluto che relativamente al fatto che per altri film non si potrebbero ricreare in futuro le condizioni di amplificazione mediatica che si sono verificate per The Interview. Sicuramente, in definitiva, Sony non ha agito da paladino della libertà di espressione (l’occasione ce l’ha avuta con l’offerta di Coelho), e si è dimostrata coerente con la propria linea guidata dal profitto. Il piano A è stato sabotato dalla paura di ulteriori leak; le minacce terroristiche probabilmente non ci sono mai state, oppure sono sempre state considerate di scarsa rilevanza; probabilmente non lo sapremo mai. Ma non è che qualcuno adesso ha interesse a fare pubblicità negativa e la Stampa improvvisamente asseconda questo qualcuno? Qui i sillogismi si incastrano uno dentro l’altro come delle matrioske, mamma mia che mal di testa. Ma meno male che noi siamo nati furbi e ci arriviamo subito alle conclusioni giuste.Qui ad averci davvero guadagnato (in notorietà), senza aver bisogno di fare calcoli, sono gli autori del film, fino a ieri semisconosciuti al di fuori degli Stati Uniti. Quindi avremmo fatto ‘inconsapevolmente’ della pubblicità a degli artisti, che magari ci piacciono. Senza peraltro comportare nessun guadagno superiore a loro carico (erano stati già pagati), se non la fama, e quindi la possibilità di produrre in futuro altri film. Triste, vero? Ed è anche ridicolo che siano i giornalisti stessi, i principali fautori della diffusione iniziale della notizia, ad accusare l’ondata di indignazione dei social.Ma ora veniamo ai santi protettori del cinema moderno, gli unici su cui in generale fare affidamento: le riviste cinematografiche online. Ecco, qui mi sono impegnata tantissimo, ma non ho trovato nulla. Evidentemente si attende l’uscita nelle sale italiane, prevista per il 22 gennaio 2015. Nessuno si prende la responsabilità di dire che lo ha già visto. Gli unici sono gli eroi di Badtaste.it, che peraltro conoscono bene i lavori della coppia Rogen/Franco, che hanno visto il film e udite udite ne parlano bene. Il film sarebbe ‘di certo la commedia più seria e adulta per Rogen e di converso quella in cui Franco dà il suo meglio’. Sono anche gli unici che mettono a confronto i numeri per quello che sono, evitando ogni complottismo. Ma quindi ho capito bene? Tutti ne parlano pessimamente ma l’unico che l’ha visto ha scritto una buona recensione?Ma adesso veniamo alla parte attiva: la mia recensione (con qualche spoiler necessario).Premetto che ho visto il film. Sicuramente con questi presupposti alla base (vedi sopra) non si può che restare almeno un pochino delusi, ma penso sia fisiologico. Nel complesso l’ho trovata un’ottima commedia, perfettamente allineata alle ottime commedie precedentemente proposte dalla premiata ditta, e mi riferisco a Facciamola finita e Strafumati in particolare. Si tratta di una commedia demenziale, pertanto non ritengo che sia troppo volgare rispetto ai canoni di genere. Soprattutto considerando in che modo tali standard di genere vengono ulteriormente trivializzati nelle produzioni italiane (sovvenzionate dallo Stato e vergognosamente pubblicizzate dagli stessi giornalisti che scrivono di cui sopra), trovo piuttosto sconvolgente che qualcuno in Italia abbia potuto scrivere che questa commedia è volgare. Il film è nel complesso meno divertente rispetto ai precedenti, ma è scritto e interpretato meglio e la produzione è di livello superiore. Il coraggio iniziale (cioè quello di fare un film di satira) gli autori ce l’hanno avuto, ma poi hanno volato molto basso, decidendo di non mostrare affatto la politica nordcoreana ma concentrandosi solo sull’assoluta ridicolizzazione del personaggio di Kim Jong-Un. Una scelta deludente per chi si aspettava un docufilm (per queste persone evidentemente il concetto di commedia demenziale non è chiaro, ed è altresì evidente che non hanno visto né il trailer né nessuno dei filmati promozionali disponibili già da un mese sul tubo), ma assolutamente comprensibile visti il tenore leggero e il registro compagnone dell’intero lungometraggio.Come ulteriore elemento di delusione, anche la retorica bene/male tanto promossa sui social qui non funziona affatto: ci troviamo all’interno di un triangolo isoscele ai vertici del quale troviamo Kim Jong-Un, un giovane dittatore imbecille afflitto dal complesso di Edipo; Starlark, un giovane anchorman imbecille afflitto dal complesso di Edipo; e Rapaport, un producer che sognava di fare del giornalismo vero e invece, deriso dai suoi ex compagni di corso, finisce a occuparsi di TV spazzatura e a lavorare con e per imbecilli. E’ proprio qui secondo me che si è creata la frattura con la Stampa. Si è tanto parlato di Stati Uniti ma alla fine nessuno aveva considerato che questo film è stato scritto da due canadesi, uno dei quali interpreta anche l’unico personaggio del film che abbia del sale in zucca. Non dobbiamo stupirci se il pubblico americano ha considerato il film ‘poco patriottico’: la satira prende di mira in egual misura sia gli americani che Kim Jong-Un (ma è molto più onesta e realistica nel prendere di mira gli Stati Uniti, riducendo il personaggio del dittatore ai minimi termini caricaturali), e a questo proposito bisogna sottolineare quanto l’interpretazione di James Franco sia straordinaria. Franco sembra scemo meglio di chiunque altro (suggerisco di vedere l’intervista promozionale a Orlando Bloom, disponibile sul tubo: Franco riesce a portare avanti da solo un monologo di 5 minuti, verosimilmente improvvisato, di fronte a un Orlando che trattiene a stento le risate, su un argomento ridicolo, e quando l’attore britannico cerca di parlare delle sue iniziative umanitarie, la risposta, sublime, del suo interlocutore è ‘I’m sorry Orlando.. I think we’ve run out of time..’), al punto tale che da rendersi quasi antipatico, soprattutto quando elimina il dittatore nordcoreno. E questo agli americani non è piaciuto affatto. Finché si scherza sulla sessualità di un rapper va tutto bene (anche come volgarità), ma qui l’ironia comincia a diventare più sottile, oh ma non è che questo qui ci sta prendendo per il culo? Il personaggio di Park è funzionale alla contrapposizione a quello di Franco, non c’è una caricatura personalizzata di Kim Jong-Un. I due personaggi sono speculari; entrambi rappresentano l’Uomo moderno, ignorante, insicuro, terrorizzato dalla necessità di soffocare la propria omosessualità latente; ma questi sono gli aspetti poco interessanti della sceneggiatura.Il protagonista vero e proprio qui è Seth Rogen che, come giustamente gli fa notare un fan nella scena in aeroporto all’inizio di Facciamola finita (‘Amico, quello è Seth Rogen! Hey Seth, quand’è che la finisci di interpretare sempre lo stesso personaggio?’), interpreta se stesso. Ma questa volta meglio. Seth non è più lo sbandato che sotto sotto è un bravo ragazzo; è uno sbandato bravo ma con delle aspirazioni artistiche. E questo funziona a tutti i possibili livelli di lettura, rispondendo alla matrioska mediatica con un efficace gioco di specchi. Rapaport è il producer che cerca di esercitare buon giornalismo con l’arma impropria della TV spazzatura, così come fa Rogen come sceneggiatore-regista utilizzando il genere comico-demenziale. Tutti gli elementi poi verificatisi nella realtà erano già stati scritti da Rogen e Goldberg in fase di scenaggiatura: la diffidenza della Stampa ufficiale, le elevate aspettative del governo, la delusione delle aspettative con il raggiungimento di un traguardo diverso ma ugualmente efficace. Il film parla di due artisti che trattano un argomento serio con un registro scurrile, vengono criticati dalla stampa e dagli ‘haters’ per questo ma alla fine raggiungono il risultato sperato. Ricorda qualcosa? Niente di più facile, se sono proprio il sistema produttivo e quello dei media che vuoi prendere di mira. E i fatti dimostrano che è possibile sollevare un polverone mediatico anche con un film comico-demenziale che fa battute stupide, così come nel film è possibile demolire un dittatore canticchiando una canzone di Katy Perry. Sicuramente gli autori non potevano prevedere che l’effetto si sarebbe amplificato sino a tal punto, e per questo devono sicuramente ringraziare i loro fan. Io non credo che tutto si possa tradurre in una vittoria/pubblicità della Sony, che merita peraltro il boicottaggio per quello che ha fatto già in partenza, senza doverne analizzare il comportamento successivo; penso che si possa parlare di una vittoria totale degli autori, che sono stati pagati per un lavoro, hanno potuto vedere distribuito il proprio film nonostante le minacce degli hacker (o di chi per loro), sono stati anche difesi (per un po’) dagli stessi soggetti che volevano ridicolizzare, hanno potuto platealmente ridicolizzarli in mondo visione. Per poi essere criticati quando ormai era troppo tardi. Qui andiamo ben oltre i 15 minuti di celebrità teorizzati da Warhol.Da parte mia, sono contenta di aver diffuso materiale relativo al film (che peraltro avrei visto comunque) e di aver promosso petizioni, col solo scopo di salvaguardare la libertà di espressione di autori che già conosco e apprezzo in merito a un film che mi ha dato esattamente quello che mi aspettavo, accusando Sony per quello che ha fatto fin da subito. Se anche le minacce dei terroristi fossero state vere, a cancellare il film è stata (per finta) Sony, non i terroristi né il governo di Pyongyang. La censura va sempre attaccata, qualunque sia il motivo che la porta in essere. E se mai produrrò qualcosa di mio, spero di ricevere lo stesso trattamento che il pubblico dei social, nel bene e nel male, ha riservato a Franco e Rogen, senza dover arrivare alle tette come la Lawrence.

Per riassumere, questo film offre esattamente quello che promette, ovvero una satira leggera e una comicità demenziale, e la offre con una qualità complessiva che non sempre viene raggiunta di questi tempi nella commedia americana e che certamente in Italia non ci possiamo nemmeno sognare. I contenuti politici sono molto limitati, ma evidentemente preclari anche al pubblico cui sono diretti, in maniera diametralmente opposta rispetto al genere documentaristico, esoterico per definizione, ma che accontenta tanto i critici (e anche me, perlamordiddio). Niente di nuovo, ma il risultato finale è piuttosto buono, pur non essendo la miglior commedia della Storia. Il film mi è piaciuto (e per quanto quest’osservazione sia statisticamente irrilevante eravamo in 5 ed è piaciuto a tutti); continuerò a considerare i film di Rogen e Golberg una scommessa sicura di divertimento, e Franco un ottimo attore comico. E visto che tutto era stato già previsto, ritengo che non sia nemmeno il caso di spremersi le meningi per concludere con una frase d’effetto, poiché è già stata scritta in un dialogo del film (vado a memoria):

Skylark — They hate us cause they’re jeallous. They hate us cause they ain’t us!

Rapaport — What you mean? They hate us cause their ANUS?

Skylark: They HATE us cause they AIN’T us. Haters gonna hate; ain’ters gonna ain’t.

Ventiquindici

Come l’ultimo post dell’anno passato , è il momento di fare il mega recappone di questo 2014 che sta per finire.Per ragioni di tempo vi sarete accorti che nella seconda parte dell’anno “Why I Blog” si è un po’ fermato, ma conto di rimetterci mano con il 2015, ho già preparato un set di amici, conoscenti, blogger da contattare per arricchire il tutto.Menziono soltanto Gigi che qualche giorno fa ha scritto una semplice grande verità:

I blog non sono morti e non moriranno mai. Possono solo migliorare.

Torniamo ai post più significativi sotto ogni punto di vista:

Passiamo senza troppi indugi, come da tradizione, alla parte migliore del post. I migliori album del 2014.Beh, quest’anno la scelta è stata molto complicata, tuttavia sul podio vanno loro 3:

Royal Blood. Il duo britannico si è formato soltanto un anno fa, ma il sound pole position, come già avevo scritto all’uscita posiziono sicuramente i Royal Blood garage rock ha già ipnotizzato i big. Lì vedrò prima a marzo qui a Milano e successivamente insieme ai Foo Fighters a Wembley il giorno del mio compleanno (Si ce l’ho fatta!).Secondo posto per gli Spoon con They Want My Soul. Conoscevo già la band, ma questo album ha riportato freschezza alle sonorità rock mascherate da indie, merita più di un ascolto perché è stata veramente una perla rara di quest’anno musicale.Infine, la maturazione dei Kasabian (qui alcuni video girati durante il concerto a Milano) con 48:13. Qui troverete le tipiche fusioni tra indie rock ed elettronica caratteristiche della band, con qualche richiamo alla musicalità tipica dell’hip-hop. Bow e Clouds i pezzi da non perdere.Ho dovuto lasciare fuori dal podio altri due album. Sonic Highways dei Foo Fighters e Rip This dei The Bass Drum of Death. Il primo non ha dei brani rivoluzionari, tuttavia lo si può comprendere al meglio solo sei si guardano gli 8 episodi della serie TV omonima. Il progetto personalmente mi ha appassionato tantissimo. Il secondo è stata una rivelazione, potenti e veloci come piace a me.Anche quest’anno ripeto quanto gli auguri non facciano parte del mio essere, ma quello che posso fare è di ricordarvi che perdersi è sempre la cosa migliore.Buon inizio anno!

Diffidenti e Social: Come si cambia tra online e offline

Per prima cosa guardate questo video:[embed]https://youtu.be/fmLt1irxR78\[/embed\]L’ho trovato su qualche blog di marketing tra i miei feed, non ricordo più quale purtroppo.Plauso innanzi tutto a Nestlé per una pubblicità fatta in questa maniera. Come al solito ho cercato di guardarla dal punto di vista della sociologia della comunicazione e dei rapporti interpersonali.Il video qui sopra me li ha fatti ricordare tutti, è riuscito a concentrarli in pochi minuti. Un esempio perfetto di come ci siamo evoluti, influenzati da una comunicazione sempre più fatta di apparenze online, sempre più disturbata e diffidente quando ci troviamo ad affrontare uno sconosciuto nella vita reale: Cosa vuole? È scemo? Perché mi parla? Non vede che sto pensando ai fatti miei? Gira i tacchi e lasciami perdere.Sensazioni conosciuta? Il video sicuramente ce le stimola ulteriormente se ci cerchiamo di immedesimare nella medesima situazione.Ho voluto scambiare velocemente due battute con il Dott. Michele Cucchi, si proprio quello in apertura del video. A lui ho voluto chiedere perché questa espansività online, mentre dal vero le nostre barricate si alzano a dismisura? Questa diffidenza e ritrosia ad approcciarsi a qualcuno che non conosciamo anche in una situazione sicura, può essere causata da un cambiamento nel nostro modo di comunicare influenzato da Internet?Mi ha risposto così:

Il mondo dei social ci scherma dalle difficoltà emotive che “dal vivo” caratterizzano l’interazione con l’altro, momento in cui scattano paura del giudizio, paura di non accettazione, dubbi su come approcciarsi ( collaborazione, seduzione, accudimento, competizione). Nel mondo virtuale abbiamo tempo per scegliere cosa dire, la pancia non si attiva e non ci influenza, possiamo gestirle meglio. È più difficile dire ciò che pensiamo chiaramente dal vivo.

Il mondo social ci permette di spine eco sento e un po’ di più oltre la naturale barriera del pudore, della convenzione, del riguardo.

Quindi: è un po’ come giocare alla playstation a FIFA e giocare davvero: nel cp scegli chi sei e più o meno poi fare tutti i ruoli che vuoi. Dal vivo….dipende chi sei.

Torniamo quindi alla mia convinzione. Online si cerca di dare il meglio di sé, la propria versione maggiormente accettata dagli altri. Offline, o nasci attore o lo diventi. Essere se stessi non è più sufficiente a quanto pare.

Prima Interstellar a destra

Ieri sera sono andato a vedere Insterstellar in 70mm al Cinema Arcadia di Melzo. Credo sia la prima volta in vita mia in cui apprezzo la qualità dei 70mm, anche non ne avevo mai visto uno con questa qualità. Una qualità grezza, slavata, con molta poca luminosità, ma dai colori veri e reali.

Mi piace l’altissima definizione e come sapete detesto il 3D, ma probabilmente una pellicola in grado di dare la sensazione di assistere ad un film di qualche decennio fa è forse equiparabile all’ascolto di un vinile oggi.Ora, non ho metri di paragone per giudicare come si possa apprezzare in 4K il medesimo film, quello che posso dire è che tutte le imperfezioni, visibili ad occhio nudo, della pellicola contribuiscono a rendere quest’opera ancora più attaccata al mondo reale, almeno per questo aspetto.Ho notato poi come ci siano almeno 7 tagli molto bruschi durante il film. Tagli, immagino, voluti in fase di montaggio, molto crudi e apparentemente fastidiosi nel cambio di sequenza filmica, tuttavia comprensibili se lo si approccia tenendo a mente il fatto che il film è stato girato e pensato per essere visto in 70mm. Kudos quindi ad Arcadia per essere una tra le sole 5 sale in Europa a trasmetterlo così come Nolan l’ha concepito. Se avete quindi la fortuna di visionarlo in questa risoluzione, non spaventatevi se le immagini ad un certo punto salteranno, è una cosa voluta, fa parte della narrazione.

Spostandomi sull’opera filmica, mi ero immaginato di andare a recuperare qualche chicca e qualche spiegazione aggiuntiva (cosa che poi ho fatto comunque, ma guidandovi nell’interpretazione del film) come fatto con Her qualche mese fa. Tuttavia mi sono detto che questa volta sarebbe stato troppo complicato e sarei finito con dare delle interpretazioni sbagliate.Ciò che posso fare, evitando di attivare la modalità spoiler, è quella di dare dei consigli prima della visione dello stesso e magari condividere una discussione sui medesimi una volta tornati dal cinema o da qualsiasi supporto voi scegliate per guardarlo.Il primo. Non scadete nell’errore di uscire dalla sala cercando di interpretare Interstellar come un trattato scientifico, un documentario uscito da National Geographic o Discovery Channel. Nella maggior parte dei casi non ci riuscirete a meno di essere degli astrofisici e anche in quel caso avreste molte domande per la testa. Nonostante ciò, se le domande iniziano a diventare pressanti e faticate a prender sonno qui ci sono un paio di articoli a supporto: il Post cerca di fare il sunto dell’uomo comune, Wired racconta invece di come proprio un astrofisico, Kip Thorne, abbia supportato il regista Christopher Nolan (scrivendo anche un libro) nella realizzazione del film.Secondo. Se invece di scienza ne capite, come Paolo Attivissimo, magari ne rimarrete delusi proprio come lui come l’astronomo di Slate o le 21 inensatezze di Vulture, perché magari la vostra anima nerd cercherà sempre e comunque il pelo nell’uovo cercando di spiegare ogni singolo fenomeno della pellicola, alla ricerca di un significato anche dove non c’è. Voglio però aggiungere una cosa e sfrutto un estratto di articolo di ScreenChrush:

But a movie is not its marketing; regardless of what ‘Interstellar’’s marketing said, the film itself makes no such assertions about its scientific accuracy. It doesn’t open with a disclaimer informing viewers that it’s based on true science; in fact, it doesn’t open with any sort of disclaimer at all. Nolan never tells us exactly where or when ‘Interstellar’ is set. It seems like the movie takes place on our Earth in the relatively near future, but that’s just a guess. Maybe ‘Interstellar’ is set a million years after our current civilization ended. Or maybe it’s set in an alternate dimension, where the rules of physics as Phil Plait knows them don’t strictly apply.

Or maybe ‘Interstellar’ really is set on our Earth 50 years in the future, and it doesn’t matter anyway because ‘Interstellar’ is a work of fiction. It’s particularly strange to see people holding ‘Interstellar’ up to a high standard of scientific accuracy because the movie is pretty clearly a work of stylized, speculative sci-fi right from the start.

Come a dire, un film è un film, non è una dissertazione scientifica da pubblicare su Science. Quindi è probabilmente un bel racconto di fantascienza, dove inevitabilmente elementi fantastici sono stati aggiunti per arricchire e abbellire l’esperienza di visione. Posso comprendere la delusione, del resto vengono affrontati temi a cui l’uomo cerca di dare risposta da sempre.

Illustrazione di Chris B. Murray

Terzo. Mi sono sforzato di comprendere meglio quale fosse il fine ultimo del film e dare una mia personalissima interpretazione. Cosa per la quale, sono convinto, Nolan lasciarci con uno spunto di riflessione. Qui si mi tocca segnalare SPOILER:

  • La gravità non è la sola forza in grado di superare le leggi fisiche di tempo e spazio. L’amore è la seconda di queste.
  • Il messaggio chiaro del film è l’inevitabilità della fine della nostra specie se non facciamo qualcosa per preservare questo luogo chiamato Terra che ci sta solo ospitando. Le referenze sono tante, ma all’inizio del film maggiormente evidenti quando si parla di aver smesso di guardare in alto per concentrarsi sul basso. Sulla Terra appunto.
  • Non concordo sull’evoluzione dell’uomo tanto da riuscire a piegare al proprio volere il tempo, tanto da riuscire a dargli una dimensione fisica. Se fosse molte migliaia di anni dovranno passare, oppure diventare delle macchine noi stessi.

Quarto e mi taccio. Ad un certo punto del film vedrete apparire Matt Damon. Ecco io al primo frame non ho fatto a meno di pensare al suo ruolo in The Departed. La spia, il traditore, il doppio giochista. Evidentemente è un’etichetta alla quale fa fatica a rinunciare. Scoprirete il perché.Vale la pena? Sicuramente si, se ne parlerà per molto tempo e sicuramente ha segnato la storia della cinematografia così come chi cerca di dare interpretazioni o sta studiando il nostro futuro come specie. Vale sicuramente il suggerimento di apprezzarlo come opera artistica, se poi amate cercare secondi risvolti, scoprirete essere il bello della macchina dei sogni.

L’importanza di chiamarsi blogger

Che strano ritrovare tanti (credetemi, tanti) blog, soprattutto americani, riaprire dopo un lungo periodo di inattività, inebriati da un’improvvisa e troppo frettolosa infatuazione per i Social Network.Blogger non lo diventi, ti ci chiamano. È un appellativo di facile guadagno non appena si decide di riempire chilate di pagine bianche su un dominio personale, dove la sola voce in capitolo sia la vostra.In realtà quello che state facendo è liberarvi. Liberate voi stessi al mondo, in che modo resta a voi comprenderlo.C’è chi come la collega danah boyd ha deciso di farlo per cambiare la community di lavoro e di passioni nella quale si è trovata all’inizio degli anni 2000.

I started blogging to feel my humanity. I became a part of the blogging community to participate in shaping a society that I care about. I reflect and share publicly to engage others and build understanding. This is my blogging practice. What is yours?

O c’è chi come Mitch Joel riflette su come sia più importante leggere rispetto a scrivere un post. Trovo tutto sommato questa riflessione piuttosto corretta.La cosa più difficile se ti senti “blogger” è trovare un argomento allettante per chi ti segue, evitare di essere soltanto il riverbero di qualcosa già detto, soprattutto per noi italiani, in un’altra lingua. L’ispirazione.Quel momento effimero bisognoso di un appunto veloce, un’annotazione anche non puntuale in grado di ricordarci in modo quasi istantaneo ciò a cui pensavamo nel momento dell’intuizione. Proprio lui suggerisce qualche tecnica da tenere a mente, sia mentre siete disconnessi, sia mentre siete online:[embed]https://youtu.be/cOsAnP8urT0\[/embed\]O c’è chi come Mitch Joel riflette su come sia più importante leggere rispetto a scrivere un post. Trovo tutto sommato questa riflessione piuttosto corretta.La cosa più difficile se ti senti “blogger” è trovare un argomento allettante per chi ti segue, evitare di essere soltanto il riverbero di qualcosa già detto, soprattutto per noi italiani, in un’altra lingua. L’ispirazione.Quel momento effimero bisognoso di un appunto veloce, un’annotazione anche non puntuale in grado di ricordarci in modo quasi istantaneo ciò a cui pensavamo nel momento dell’intuizione. Proprio lui suggerisce qualche tecnica da tenere a mente, sia mentre siete disconnessi, sia mentre siete online:

Physical. I keep it very simple. Moleskine for the win. I keep two physical journals. One in my back pocket and a much bigger one in my bag. I’m a writer. As amazing as digital is, I like to physically write my ideas/notes down on paper. Capture everything. You never know where something interesting might come from. Don’t believe me? Read what James Altucher has to say about taking notes.

Digital. Whatever I read (and find interesting), I now save with an app called,Pocket. I love Pocket, because it works great across all screens (iPhone, iPad and MacBook Air). The tagging functionality is priceless, and the ability to read the content saved while being offline is simply magical. I have written about my love affair with Pocket before.

Tuttavia se siete già in questa fase, dove l’ispirazione deve diventare ossessione per convertire una visita in un utente fedele, allora significa rasentare l’ossessione per la pubblicazione. Quasi un lavoro. Il blog, inteso come diario online (web log), a quel punto, ha fatto spazio a qualcosa d’altro, forse più vicino a un giornale online o una forma di divulgazione di un pensiero culturale.Per questo trovo profonda differenza tra chi lo fa per il primo scopo, a mo' di confessionale, e il secondo dove invece la sensazione di urgenza di pubblicare è la prima cosa a cui pensi al mattino.Se lo intendete, come lo intendo io, nella sua prima accezione essere un blogger significa accrescere il valore di se stessi grazie alla condivisione del proprio bagaglio di esperienze, non necessariamente culturale. Una forma d’arte insomma come scrive Anil Dash in questo suo post di 15 anni di blog.

The personal blog is an important, under-respected art form. While blogs as a medium are basically just the default format for sharing timely information or doing simple publishing online, the personal blog is every bit as important an expressive medium as the novel or the zine or any visual arts medium. As a culture, we don’t afford them the same respect, but it’s an art form that has meant as much to me, and revealed as many truths to me, as the films I have seen and the books I have read, and I’m so thankful for that.

Forse difficile mantenerne uno, ma dopotutto la frequenza dovrebbe importarvene poco se pensate di farlo per voi stessi più che per qualcun’altro. Dopo tutto ne sono sopravvissuti pochi perché in tanti hanno qualcosa da dire, anche se in pochi riescono ad esprimerla come vorrebbero.Spesso siamo troppo attratti dalle mode della condivisione a tutti i costi, esser blogger nel 2014 significa soprattutto questo. Evitare di dipendere dal concetto del “Fear of missing out” di cui ho parlato qualche giorno fa. È una cosa molto complicata a cui sono arrivato dopo molti anni di scrittura online, molti dei quali vissuti con la nascita e l’espansione proprio di quei luoghi che hanno contribuito a creare quest’ansia. Ora pubblico solo quello che so accrescere il mio spirito critico, ampliato nel momento stesso in cui digito le parole su cui sto riflettendo.Il bello di uno spazio come questo è poter fissare un pensiero, evitando di preoccuparsi dell’opinione degli altri.

Halo: The Master Chief Collection

Perdersi è la cosa migliore

Settimana scorsa ho salvato un articolo di Internazionale sulla gioia di perdersi qualcosa. Certo che prima o poi avrei trattato l’argomento.

Questa sensazione è in netto contrasto con una delle malattie dei nostri tempi: la Fomo (fear of missing out), cioè la paura di perdersi qualcosa. Secondo l’imprenditrice Caterina Fake, che ha contribuito a rendere popolare questo termine, la Fomo è “un vecchio problema, aggravato dalla tecnologia”: non siamo mai stati così consapevoli di quello che gli altri fanno e noi no. Facebook e gli altri social network provocano Fomo, e ne traggono profitto: li controlliamo continuamente anche per avere la sensazione di partecipare a distanza.

Ci sono tornato ieri col pensiero mentre guardavo Boyhood. Ad un certo punto il protagonista, in questo concentrato di passaggi cruciali della sua vita, nelle ultime battute pronuncia questa frase:

I want to try and not lead my life through a screen

Mi ha sulle prime ricordato una reazione alla Vita à la “Into the Wild”, ma dopotutto è ciò che ho fatto anche io da qualche mese. Ho dato ascolto al mio corpo e alla mia mente e semplicemente ho riassegnato delle priorità.Come passare una giornata intera con qualcuno che non vedi da una vita, ma sai che in realtà c’è sempre stato. Provare a guardare un concerto intero cercando di lasciare il cellulare in tasca, anche se con poco successo. Stare vicino a chi ti fa capire di aver bisogno di te, ma non te lo dice per non sentirsi un peso.Ciò che mi sto perdendo è la vita degli altri e non la mia. E questo è un pensiero a cui mi piace tenermi stretto.

In fondo non ci stiamo veramente “perdendo” qualcosa se, inevitabilmente, la stanno perdendo quasi tutti gli altri. Stare male per questo è come disperarsi per non essere in grado di contare all’infinito.

Sparire dal proprio blog accade sempre per un motivo. Ora sapete che mi sto perdendo nel Mondo, qui potreste trovarlo in differita.

True Detective e l’importanza del dialogo

Questo non è un post su True Detective. Lascio alle migliaia di pubblicazioni online vicine alle serie TV il compito di descrivervi la serie, così come ha fatto Vice qui molto bene. Questo è un post sulle parole e su come chi sa concatenarle nel modo giusto abbia vinto già una grossa battaglia: quella per l’attenzione.Probabilmente faticherete ad accorgervene, è una sensazione difficile da decifrare. Restare incollati allo schermo senza addormentarsi di fronte al televisore dopo una giornata mentalmente massacrante, è cosa non da poco di questi tempi.L’abbondanza di produzione multimediale, tuttavia, ci garantisce una agevole via di fuga dall’evitare un calo della palpebra cronico. E, in questo ventaglio di opzioni tendenti all’infinito, il saper scegliere mette in gioco sostanzialmente tutte le nostre percezioni sensoriali, incluse quelle meno consce.Il dialogo in una serie televisiva, ad esempio, è una di quelle caratteristiche in grado di immergerci nella visione, oppure farci storcere il naso per le troppe banalità udite. Questa, tra tutte le altre, è quella che ci consente di comprendere fin dalla prima puntata se quanto mostrato davanti ai nostri occhi merita la nostra attenzione per le puntate a venire.Pochi ci riescono. Pochi sono in grado di catturare la mia di attenzione. E, pur non essendo un capolavoro da cambiare i paradigmi di genere, True Detective a mio modo di vedere è una serie dove il dialogo tocca delle vette qualitative così elevate da risultare stucchevole.Ora, pur io avendo visto solo le prime 4 puntate e magari voi nessuna di queste, il monologo che segue non rovinerà assolutamente la trama di quanto potreste apprezzare nel completare la visione della prima serie. Tuttavia è un fondamentale esempio di quanto ho descritto poc’anzi.Scusate le immagini forse un po’ crude, ma concentratevi sulle parole. Sulla metafora perfetta di chi si concentra sul significato della vita in punto di morte. Parole meritevoli di riflessione.[embed]https://contino.wistia.com/medias/68i2gvkgqe\[/embed\]Il dialogo in senso lato è anche quello filmico e la bravura di chi lavora ad una produzione audiovisiva è anche quella di sapersi rivolgere al pubblico di riferimento evitando di estraniarlo dalla realtà in cui vive, introducendo riferimenti storici del tempo in cui si vive. Questa è anche una delle sottolineature di eccezionale bravura anche dei dialoghi ritrovabili in House of Cards attraverso le parole del suo protagonista Frank Underwood.[embed]https://contino.wistia.com/medias/o5lp2m0o9t\[/embed\]Questa scena, a quanto pare molto apprezzata, si svolge nel quarto episodio ed è un piano sequenza lungo 6 minuti. Un linguaggio stilistico poco comune in una serie televisiva, così anche nel cinema contemporaneo, tutta poco estraneo ad un contesto del genere. Si spiega difatti in modo egregio collocandola accanto ad alcune scene del videogioco GTA con inquadrature, pathos, emozioni molto simili a quelle vivibili in questi 6 minuti.Tutto questo per dire cosa?Cercate di prestare attenzione a tutte le sfumature di un racconto, sotto qualsiasi forma esso si presenti. Badare soltanto alla storia limita le percezioni di sensi altri rispetto alla mera trama. Il significato ama nascondersi sotto molti significanti, i quali, non per forza devono essere quelli più facilmente riconoscibili.

La vista di Massimo da lì

Complice un relativo lungo viaggio fatto sabato mattina, sono riuscito a leggere tutto d’un fiato “La vista da qui”, il libro di Massimo Mantellini uscito il 30 agosto scorso.Quando ho chiuso la copertina, dopo aver letto l’ultima pagina, mi sono appuntato molte domande. Tanti chissà… La prima, la più immediata, è se gli fosse servito questo periodo di soggiorno a Londra per riflettere con maggior intensità su quanto avviene in Italia, e così poterne scrivere un libro. Poi mi sono risposto da me, sul suo blog ne scrive praticamente ogni giorno, il motivo è stato forse per raggiungere quella metà di italiani che, come scritto nel libro, di stare sulla Rete proprio non gli passa dall’anticamera del cervello.

Le domande, come dicevo, non sono terminate.Mi sono subito immedesimato nel “ mediatore sentimentale” in apertura del capitolo dedicato al copyright. Così come interpretiamo oggi il diritto d’autore quaggiù, ma allo stesso modo negli Stati Uniti, è qualcosa che necessita di una revisione sensata realizzata, soprattutto, da persone in grado di discernere l’ampliamento della conoscenza, dall’atto di pirateria a scopo di lucro. Massimo va al nocciolo della questione. Chi fa le leggi spesso non sa nemmeno di cosa sta parlando e ragiona con schemi non applicabili da media a media.Internet in tutte le sue forme si è da sempre contraddistinto per replicare un modello già esistente nella creazione di cultura da parte dell’essere umano. Trasformare in qualcosa di diverso, migliore o peggiore è a descrizione del singolo, ciò di quanto già esistente. Combinare e fondere esperienze pregresse per ampliare gli orizzonti cognitivi.Chissà cosa ne penserà ora Massimo, dopo aver scritto e pubblicato un libro e annoverandosi di diritto tra quella schiera di persone protette da copyright, se il suo libro dovesse essere copiato o fatto a “pezzi” e ricomposto per diventare “altro” in maniera del tutto free. Conoscendolo un pochino, credo di sapere già la risposta.Tutto il testo, a mio modo di vedere, ruota attorno ad un concetto fondamentale seppur banalissimo, ma di cui una bassa percentuale di persone tiene purtroppo conto. Internet non è un mondo extra-terrestre, non è popolato da un Avatar nella concezione cinematografica del termine. Ci sono persone, ci siamo noi, e ci sono gli stessi medesimi comportamenti vigenti tra umani in carne ed ossa. Esiste solo un’intermediazione in cui non è prevista la presenza tattile. Chi non l’ha ancora compreso, non ha ancora capito di cosa si tratta.Percorre questo fil rouge il capitolo dedicato alla privacy, dove il controllo della identità online è dato da quegli stessi strumenti in grado di amplificarne l’ego e la diffusione. E così come dobbiamo stare attenti a proteggere in un luogo sicuro le chiavi della nostra abitazione dopo averla chiusa adeguatamente, abbiamo tutti gli strumenti in grado di controllare quanto di noi vogliamo mostrare al mondo. L’importante è sempre avere il controllo ed evitare che le “chiavi” finiscano in mani sbagliate o siano facilmente rintracciabili. Chissà cosa avrebbe aggiunto Massimo al capitolo dopo quanto avvenuto nei giorni scorsi sul maggior caso di furto di autoscatti di nudo ai danni di alcune celebrità, per poi essere rese disponibili al grande pubblico.Infine, sapevo Massimo sarebbe ritornato sulla questione supporti vs contenuto. Nel capitolo dedicato ai libri c’è un passaggio in cui mi sono rivisto nel mio essere lettore oggi. Per me il supporto non conta più, non preferisco quello elettronico alla carta e viceversa. Preferisco anche io il contenuto. Per questo ho comprato i 4 volumi delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco sia cartacei che in formato eBook. È la circostanza in cui mi trovo come lettore a fare la differenza e solo questa. Tuttavia siamo ancora “carcerati” dietro legislazioni medievali dove se acquisto un libro cartaceo non posso avere in automatico anche la versione elettronica, sebbene io stia acquistando l’opera di un artista, non il suo supporto.È facile accorgersi di come in questo breve saggio Massimo non racconti di sé stesso, ma piuttosto della finestra affacciata sulla sua personale esperienza dell’Internet (si per me sarà sempre maiuscola) italiana di cui anche lui ha contribuito a crearne un racconto storico attraverso il suo ultra decennale blog. E una vista come la sua, carica di esperienza, ci dice che la verità sta nel mezzo, dove è necessario dotarsi di un occhio universale e non parziale per poterne comprendere le miriadi di sfaccettature. Sia positive che negative.Un mio personalissimo consiglio: leggetelo in tempi brevi. È senz’altro da annoverare tra i volumi della storia dei media, ma fate in fretta, la scelta di un supporto cartaceo impone uno specchio dei tempi correnti molto limitato. Tra non molto quello scritto di Massimo sarà “solo” altra storia.ps. Piccola nota per l’editore minimum fax. Avrei lasciato la pagina bianca subito dopo la fine, come chiesto dall’autore del libro.

Da E’ a È: Italiano e tastiere, una storia complicata.

[embed]https://www.facebook.com/AccademiaCrusca/photos/a.598007076909584/699215906788700/?type=3\[/embed\]Nemmeno poi troppo.Al di là dei consigli utili dell’Accedemia della Crusca pubblicati su Facebook circa l’utilizzo corretto degli accenti, il più delle volte gli errori online, ed in particolare uno, sono causati da una scarsa conoscenza della tastiera.A ragion veduta aggiungerei, visto che per Windows ad esempio c’è la necessità di ricordarsi un codice specifico o una combinazione di tasti.Ripropongo quindi il post di Giovanni in cui spiega come facilmente sostituire il layout della vostra tastiera in modo da poter fare tutte le maiuscole accentate con la semplice combinazione di CAPS LOCK + à, è, ì, ò, ù.

Written by Andrea Contino since 2009