Seguite le vostri passioni, non chi vi dice cosa fare

Stavo per andare a fare una pennica dopo le ore piccole di ferragosto, ma ho volutamente rinunciato — ho dovuto rinunciare — dopo la marea di troppo superficiali conclusioni del giornalista de Il Fatto Quotidiano Stefano Feltri su una diatriba di celolunghismo vecchia di decenni: le facoltà scientifiche sono meglio di quelle umanistiche, rovina, secondo lui, del futuro dell’Italia.

Nel primo post Feltri analizza un paper dove viene evidenziato come chi studia le materie umanistiche non guadagna, sarà un futuro disoccupato e, aggiunge lui, ha deciso di intraprendere una carriera di studi facilona perché non aveva voglia di impegnarsi in qualcosa di più complesso.

È giusto studiare quello per cui si è portati e che si ama? Soltanto se si è ricchi e non si ha bisogno di lavorare, dicono gli economisti. Se guardiamo all’istruzione come un investimento, le indagini sugli studenti dimostrano che quelli più avversi al rischio, magari perché hanno voti bassi e non si sentono competitivi, scelgono le facoltà che danno meno prospettive di lavoro, cioè quelle umanistiche.

I ragazzi più svegli e intraprendenti si sentono sicuri abbastanza da buttarsi su Ingegneria, Matematica, Fisica, Finanza. Studi difficili e competitivi. Ma chi li completa avrà opportunità maggiori, in Italia o all’estero.

WTF!?Forse sono un prodotto atipico della cultura umanistica italiana, lavoro per una delle più grandi aziende al mondo solo perché ho avuto culo e svogliatamente mi sono trascinato a fare qualcosa di facile e veloce?Ho respirato, ho riflettuto e mi sono detto andiamo a leggere questo benedetto paper catastrofista secondo il quale dovrei guadagnare poco o essere disoccupato. Fortunatamente l’aver conseguito una laurea umanistica, t’oh ma guarda un po’, mi ha permesso di imparare a leggere una ricerca e le ricerche si basano sulla statistica e su un campione di intervistati. E le ricerche producono risultati esplodendo i dati presi da campioni, ovverosia non necessariamente rispecchiano la realtà che raccontano.

Quello che mi sento di dire ai ragazzi italiani (ad esempio ho fatto lo stesso discorso a mio nipote di 18 anni) che stanno per scegliere la facoltà universitaria è lo stesso fatto da Marco in questo video:[embed]https://youtu.be/F0ngqDCImkQ\[/embed\]**Per trovare il lavoro dei vostri sogni dovete avere passione, lottare, combattere contro giganti così come dettagli piccolissimi, ma non permettete a nessuno di dirvi cosa non potete fare. No non è una frase da film, ve lo dico perché io lo sto sperimentando in questi primi 10 anni di carriera.Mi sono laureato in Scienze e Tecnologie della Comunicazione, dopo 3 mesi esatti dalla mia laurea triennale benché fossi già iscritto ad un Master ho trovato lavoro. Ci vuole fortuna e trovarsi nel posto giusto al momento giusto, sono conscio di questo, ma senza la passione e la fermezza delle scelte che ho fatto non sarei dove sono ora. Ci saranno fallimenti e delusioni, porte in faccia, ma anche tante, tantissime soddisfazioni. Ve lo prometto.Credete in voi stessi, alcune volte servirà accontentarsi, ma soprattutto non aspettatevi di guadagnare migliaia di euro il giorno dopo usciti dall’Università. Ci vuole tempo e dedizione, ma se si stabiliscono degli obiettivi li si possono raggiungere. L’Italia vi ferma? Uscite dal Paese e tornateci quando avete fatto quello che dovete.Se il lavoro non c’è, come dice Marco, non aspettate e createvelo. No, non bisogna aver studiato Economia o Ingegneria per creare una start-up, per farlo servono idee, spirito di sacrificio e collaborazione.Andiamo avanti. Nel secondo post** Feltri invece si sente di dare spiegazioni più approfondite al primo:

se guardo al mio percorso universitario con la logica dello studio del Ceps, come investimento finanziario è stato ottimo. I miei genitori, non certo senza sacrifici, hanno investito parecchio sulla mia educazione. Solo di tasse universitarie cinque anni in Bocconi costano circa 50mila euro, più le spese come studente fuori sede ecc. Non potevo accedere a borse di studio e sostegni perché riservati alle famiglie con redditi più bassi della mia o a quelle degli evasori fiscali, che risultano poverissime.

La nomea dell’università e — mi piace pensare — le conoscenze e le competenze acquisite mi hanno permesso di trovare subito il lavoro per il quale mi stavo preparando, cioè il giornalista

Posto che chi si laurea in Bocconi si sente sempre un gradino sopra gli altri. Il paragrafo su riportato mi ha dato da pensare. Il sunto che ne faccio è l’equivalenza ho pagato 50.000 euro di tasse universitarie = mi sono comprato l’accesso al mondo del lavoroAh si, seconda osservazione. Fare il giornalista non è una professione umanistica? Forse ho perso io qualche pezzo.Ma arriviamo al capolavoro finale:

Dal lato delle scelte collettive, cioè le politiche pubbliche, dovremmo tutti chiederci se ha senso sussidiare pesantemente università che producono disoccupati e formano persone che nessuno sente il bisogno di assumere o retribuire adeguatamente. Tradotto: meglio avere molte facoltà di filosofia e scienze della comunicazione o chiuderne qualcuna e magari dare più incentivi alla ricerca in campo chimico o elettronico? Parliamone.

Quindi chi lavora nelle PR, Marketing, Comunicazione; Digital PR, Social Media, Art, Copy, etc. etc. etc. che sono solo una piccolissima parte del mondo umanistico dovrebbero placidamente sparire lasciando il mondo del lavoro a chi si è acculturato a suon di numeri e teoremi matematici, tanto sapranno coprire le lacune lasciate dai primi.Certo.Chiedete ad un ingegnere di non essere analitico, poi vediamo come le aziende per le quali andrete a lavorare o le vostre, se ne creerete, una saranno in grado di comunicare efficacemente.

Nessuno dice che le materie che si studiano nelle facoltà che garantiscono redditi bassi e disoccupazione siano da disprezzare (con qualche eccezione, magari, ma di corsi inutili se ne trovano ovunque). Anzi, spesso sono interessantissime e cruciali per la nostra formazione come individui. Ma quello che forma l’individuo non necessariamente è utile anche a formare un lavoratore.

Ancora. Ancora una riflessione dove chi lavora deve essere una specie di disadattato costretto a spendere delle ore della propria giornata tirando fine mese facendo qualcosa che odia, solo perché è così che funziona l’Italia.Cazzate. Tutte emerite cazzate.La verità è che questo Paese necessità di qualsiasi tipo di figura lavorativa, disquisire sulla carenza di sforzi in ricerca scientifica ha poco a che vedere con la scelta della facoltà universitaria.Vero è che ce ne sono alcune in grado di avere un impatto più forte e immediato sul mondo lavorativo, il quale sta subendo una trasformazione tecnologica e digitale senza pari. Indi per cui sono anche io convinto che un laureato in Informatica abbia più chance di uno storico specializzato in guerre puniche.Ma questo Paese non andrà in declino per troppi laureati in Lettere o Filosofia, i problemi legati alla disoccupazione sono ben altri e completamente distaccati dal sistema educativo da scegliere a 19 anni.Caro Stefano, come vedi anche i numeri scritti nero su bianco possono non raccontare la realtà e cosa davvero succede in Italia. Perché come me conosco decine di ragazzi con il mio stesso percorso di studi o similari che ce l’hanno fatta, sono affermati e rifarebbero la stessa scelta ad occhi chiusi, considerando un passo fondamentale l’aver snobbato una facoltà non umanistica.

Perché arrivo in ufficio presto

Benché mi piaccia da morire dormire, il mio corpo si rifiuta di farlo dopo una certa ora. Weekend qualche ora in più, ma non mi troverete mai a letto oltre le 10.30. A meno di essere un seguito a una serata particolarmente intensa 😜.Non arrivo in ufficio prestissimo, ma diciamo intorno alle 8.45 sono seduto davanti al mio monitor, spesso e volentieri da solo. Alcuni arrivano poco dopo, altri dopo un’abbondante mezz’ora. La bellezza della flessibilità del nostro lavorare da ovunque siamo ci dà ampio margine di manovra.Tuttavia non riesco a fare a meno di quei 20 minuti di completa solitudine, dove ancora le piramidi di email devono ancora iniziare e riesco a concentrarmi su come iniziare bene la giornata lavorativa.Ci pensavo durante la vacanza di settimana scorsa e a proposito ho trovato un paio di post recenti sull’argomento che mi hanno fatto sentire meno solo. Il primo di Fast Company. Qui si puntualizza molto sul discorso di inserire anche un’attività fisica tra le 7 e le 9 di mattina, ma qui davvero è una cosa più forte di me. Tuttavia, uno spunto in cui mi riconosco è il seguente passaggio:

According to researchers Mareike Wietha and Rose Zacks in an article published in the journal Thinking & Reasoning, working early in the morning, when you’re still groggy, promotes greater insight, problem solving capabilities, and creativity when compared to starting the day after 9 a.m., when you’re feeling more alert and awake

L’ altro di Mitch Joel, blogger e ceo di un’agenzia di comunicazione in Canada, da cui estraggo questo:

The early morning offers the sacred hours. The family is off to school. The hum of emails and meetings have yet to commence. The distraction of social media is a dull roar. It’s all about focus. The ideas seem fresh. The real work is done, because there are no interruptions. The caffeine from my morning coffee is just kicking in. The world is filled with boundless ideas and opportunities.

Si insomma. Le rotture di scatole a quell’ora ti danno quantomeno la parvenza di non essere ancora cominciate.

Sunshine State of Mind

Scrivo queste righe pochi minuti prima di chiudere la valigia, consegnare la macchina all’aeroporto e ritornare in Italia.
Miami è la settima città degli Stati Uniti visitata dopo Los Angeles, San Francisco, New York, Las Vegas, Atlanta e Seattle. Ho prenotato a febbraio, decidendo di costruire la vacanza senza nulla di organizzato.
Quindi se cercate la vacanza con cocktail in mano, da passare sdraiato in piscina a dormire con gli occhiali da sole perenni e uno scocchiare di dita per chiamare “Garçon..”, questo post allora non vi riguarda.
Non vuole essere esaustivo, è solo la raccolta di quanto sono riuscito a vedere e vivere in 5 giorni.

Dove stare e come muoversi
Se potete permetterveli a South Beach credo ci siano alcuni tra i più costosi hotel degli Stati Uniti. E se comunque l’esser serviti e riveriti in vacanza è una priorità, meglio puntare ad un servizio simile.
Altrimenti AirBnB è la risposta. Questa la casa prenotata, è costata meno di un hotel a 4 stelle, ha un parcheggio per l’auto gratuito, è in un punto strategico per raggiungere qualsiasi luogo della città in non più di 30/35 minuti.
Il servizio pubblico funziona magnificamente, ma credo la macchina sia piuttosto indispensabile. I noleggi costano molto poco, specie se presi direttamente in aeroporto, ho speso 200 dollari e qualcosa prenotando con largo anticipo. Ma se vi accontentate di una utilitaria (va più che bene) con un centinaio di dollari la portate via per 5 giorni.
L’alternativa meno costosa è Uber, consigliato anche dai proprietari di casa, soprattutto maggiormente sicura rispetto ai pullman e ai tassisti.
Se optate per la macchina vi consiglio di scaricare Here Drive Maps. È disponibile per tutti i sistemi operativi e scaricando le mappe prima di partire sarà un perfetto navigatore anche in assenza di 3G. Idem se siete a piedi, le mappe di Here vi orienteranno senza bisogno di connessione.

Cosa vedere…Cosa vedere?
Beh, per quello esistono milioni di siti e guide turistiche. Affondate da lì a piene mani, ma dedicateci almeno una giornata intera se volete fare tutto da voi. Occhio alle fregature. Sono tante e ben nascoste.
Vi posso però dire cosa mi ha colpito:

  • South Pointe. All’estremo sud di South Beach. È l’imboccatura del porto ed è anche uno degli scorci migliori. Proprio di fronte c’è Fisher Island. Una delle poche isole naturali del circondario, la sola raggiungibile tramite traghetto. La sola dove per avere una proprietà devi avere almeno 3/5 milioni di dollari in banca.
  • Aventura Mall. Al momento penso il più enorme centro commerciale mai visto in vita mia
  • Wynwood. Il quartiere hipster. Sembra di stare nel posto più degradato degli Stati Uniti, svolti l’angolo e sei in una galleria d’arte a cielo aperto. Tutte le foto nella galleria qui sotto sono di questo quartiere.
  • Il faro e Key Biscayne. Key Biscayne è un mondo a parte. Sembra di essere in un villaggio dove il tempo e fermo e la gente non sa bene cosa stia accadendo al di fuori di esso. In macchina si va pianissimo, tutti salutano tutti. Estremamente pulito, ci sono solo giovani mamme in giro a pascolare i pargoli mentre fanno jogging spingendo il passeggino. Alla fine dell’isola si arriva al parco dove all’estremità c’è un faro e due targhe commemorative messe in croce

La città è veramente enorme, questi sono solo alcuni dei quartieri, ma ce ne sono molti altri meritevoli di visita e approfondimenti. Anche fuori da Miami, come Everglades e la visita a qualche coccodrillo. Magari la prossima volta.

Lingue e turisti
Sai l’Inglese? Bene. Sai lo Spagnolo? Allora sei in una botte di ferro. Qui è forse più parlato dell’idioma anglosassone, ed è bellissimo sentire i diversi accenti. Soprattutto quando mischiano nella stessa frase le due lingue. Altro che spanglish.
Non so se fosse il segno dei tempi, ma i turisti con maggior affluenza sono i brasiliani e i russi. Staccano di gran lunga tedeschi e francesi. Non ho incrociato molti italiani, spariti tutti finito il ponte del 2 giugno.

Meteo
Se dicono che pioverà a Miami, a Miami Beach non accadrà. O perlomeno non più a lungo di 15 minuti. Ecco magari se il tempo sembra guastarsi, buttate l’asciugamano vicino a uno dei baracchini sparsi per la spiaggia. Giusto per salvare i telefoni e oggetti di valore.

Musica
Nelle radio di Miami passano della musica terrificante. Ma brutta brutta. Hit di un anno fa almeno, sempre le stesse, oppure un costante mix di calypso e ritmi latini. Beh, c’era d’aspettarselo dopo tutto qui le influenze cubane e caraibiche sono fortissime.
Se volete viverla dal vivo sono stato al club LIV e nel locale caratteristico cubano Hoy Como Ayer.

Mangiare
Se amate il pesce, penso sia il posto giusto. Ma peccato, io non lo sopporto, quindi non potrò segnalarvi nulla di simile. Però qualche altro spunto posso lasciarvelo:

  • Colazione. Se sapete resistere a Starbucks o qualsiasi altra ipercalorica colazione americana abbiate in mente, allora recatevi da Delicious o Il Buon Pane Italiano. Sono gentili, hanno aperto da poco, nel primo c’è un caffè decente, nel secondo pane e cornetti come siamo abituati
  • Pranzo-Cena Se sei abbastanza fortunato, approfitta dei food truck sparsi per le strade. Altrimenti: Doma Bistro, BurgerFI, Joey’s, 900, Amami. Dipende cosa vuoi mangiare e in che parte della città ti trovi. Per tutto il resto c’è TripAdvisor.

Nonostante le immancabili artificialità ed esagerazioni tipiche americane — metà delle isole o pezzi di terra galleggianti di Miami sono artificiali, oppure ci sono ville in cui ogni palma importata dall’est Africa arriva a costare 10.000 $ l’una — Miami resta una città atipica. È una delle metropoli al mondo ad avere uno skyline così sviluppato e allo stesso tempo una spiaggia di così elevata qualità. Ed è probabilmente proprio perché ci sono così tante razze mischiate insieme e pochi puri e crudi americani a rendere Miami diversissima dalle altre grandi città degli Stati Uniti. C’è poca fretta, poca urgenza di arrivare, poco caos a parte un costante sottofondo musicale ad ogni block.
Sicuramente un buon compromesso tra relax e divertimenti.
In macchina ad esempio sembrano più o meno tutti rispettare i limiti di velocità, sarà per paura delle multe, ma raramente ho visto gente andare così piano in una strada a 8 corsie in mezzo a palazzi e attraversamenti pedonali.
Ci vivrei sicuramente per un paio di motivi. Fa sempre caldo in qualsiasi mese dell’anno. Potrei fare un bagno prima e dopo il lavoro.
Senza nulla togliere all’assuefazione da Oreo.

Ps. Per la serie il segno dei tempi: Ho portato la reflex, ma ho scattato ben poche foto. Tutte con lo smartphone. È brutto da dire, ma è la verità.

Hardhome

La serie TV “ Il Trono di Spade” ha una grande fortuna. Avere come super visore lo scrittore dei romanzi da cui trae ispirazione. Sebbene, come ha chiarito spesse volte attraverso il suo blog, lo show prenda pieghe differenti rispetto ai libri, arrivando comunque sempre allo stesso punto narrativo, non posso che essere d’accordo con questa analisi della scena finale dell’episodio 8 della 5a stagione:

But nothing beats the last 20 minutes of “Hardhome,” one of the finest sequence of TV I ever hope to see. I could go on for hours about how fantastically assembled the scene was — the rising tension of Jon’s negotiations with the Wildings, the partial resolution that gets viewer to assume the conflict is over, the impossibly slow build-up of the undead army’s arrival — it was amazing. But the episode’s real power — and what it has turned the White Walkers into — comes from the relentless series of instantly iconic, jaw-dropping moments that reveal the Walkers are an ever-more powerful, terrifying foe.

Sono qualche capitolo indietro nella lettura dei libri, tuttavia non riesco a non immaginare le scene simili a quelle viste in TV mentre le sto leggendo.Un bene? Un male? Non lo so.Lasciare a qualcun’altro l’interpretazione della mia immaginazione non credo sia del tutto una cosa spregevole, tanto più se questa supera ogni aspettativa.Nei romanzi si parla poco della vera minaccia che incombe sui domini degli uomini, la serie TV ha deciso di sottolinearlo pesantemente, mentre ancora non è stato fatto negli scritti. Ma è ora più che mai viva e presente, e salvo strani stravolgimenti molto difficilmente constrastabile con gli attuali mezzi a disposizione.

Ex-Machina

Si chiama Ava (che felice assonanza con Eva, il nome della prima donna creata da Dio), ha sembianze femminili, e se non fosse per il suo corpo percorso da cavi di fibra ottica a fatica la si scambierebbe per un’androide. Caleb è li per quel motivo, provare a constatare attraverso il test di Turing che in effetti è impossibile accorgersi della differenza.Il concetto fila, sta in piedi, e non siamo tanto lontani nel tempo da un’altra storia a cui ho dato molto spazio un anno fa di questi tempi, Her. Come in Her, Ex-Machina affronta il tema tremendamente attuale di quanto l’uomo sarà in grado di tenere a bada le “macchine” di matrixiana memoria, e se sarà in grado di controllarle nel momento in cui le intelligenze artificiali avranno piena coscienza di loro stesse.Se in Her le macchine decidono di ritirarsi dalla scena, in Ex-Machina abbiamo la sindrome alla base di Pinocchio. Nella favola di Collodi il burattino desidera più di ogni altra cosa al mondo di diventare un bambino vero. Allo stesso modo Ava è così avanzata da percepire di essere una macchina soggetta a miglioramenti, spegnimenti, modifiche e perdite di memoria. E farà di tutto per evitarlo.Questo si esplicita quasi subito, nei primi dialoghi tra Ava e Caleb:

AVAWhat will happen to me if I fail your test?

CALEB Ava -

AVA Will it be bad?

CALEB … I don’t know.

AVA Do you think I might be switched off? Because I don’t function as well as I am supposed to?

CALEB … Ava, I don’t know the answer to your question. It’s not up to me.

AVAWhy is it up to anyone? Do you have people who test you, and might switch you off?

La trama è fluida, prosegue spedita e le lacune individuabili in alcuni dettagli della stessa hanno il pregio invece di essere narrate senza soffermarsi troppo su di esse, rivelatasi poi una scelta stilistica molto acuta al termine del film.[embed]https://youtu.be/zg23CSUm1qk\[/embed\]Il tema è stato trattato in lungo e in largo nella storia del Cinema, tuttavia in Ex-Machina la semplicità con cui viene trattato aggiungendoci il restringimento del lasso temporale per cui ciò potrebbe effettivamente verificarsi lo presenta con la necessità di riflessioni maggiori su quanto potrà accadere da qui a qualche anno nell’ambito della robotica e intelligenza artificiale.Il finale è inatteso e spietato, ma freddo e plausibile negli avvenimenti. Risolutori quanto basta per far corrispondere Ava a quello che realmente è.Come è girato?Il campo di ripresa è sempre pieno, di oggetti, di persone, di androidi. Questo fa pari con le sensazioni claustrofobiche del bunker in cui si svolge l’oltre 90% del girato. Spazi stretti, angusti ove non si può sfuggire né da se stessi, né dalla realtà artificiale creata per allontanarsi da quella reale.È un pugno diritto in faccia, come a dirti “Dove stai andando? Tanto da qui non si scappa”. Chi ha diretto la fotografia poi ha fatto un sapiente uso di rimandi e similitudini. Davanti ad un quadro di Pollock, l’umano che gioca a diventare Dio sistemando il caos del mondo esprime tutta la solitudine di un arricchito in preda alle più becere manie di grandezza, senza uno scopo alcuno.

Concedetemi un ultimo parallelismo con Her. Come non notare anche in questo caso la splendida scena finale, dove viene scelto di chiudere con una serie di proiezioni di ombre di alcune persone intente a camminare.Assumono un significato molto potente, i robot, le intelligenze artificiali o qualsiasi altra diavoleria ci inventeremo per farla assomigliare a noi, altra non è che la proiezione di noi stessi.

Non ho giudizi sulla colonna sonora, in quanto non si è fatta apprezzare, così come le ambientazioni eteree e prive di connotazioni in grado di risaltarle.Gli effetti speciali sono così reali da sembrare quasi del tutto invisibili, morbidi e mai troppo accentuati. The Verge ha realizzato un breve documentario per raccontarli meglio:Resta una pregevole esecuzione, sono certo questa estate tornerà a far parlare di sé.Ps. se volete divertirvi creando una versione robotizzata di voi stessi c’è il sito: https://ava-sessions.com/

The Order: 1886

Quando ci si appresta ad analizzare una nuova proprietà intellettuale bisogna farlo con un giudizio caratterizzato dal più ampio respiro possibile. Vuol dire semplicemente che il debutto su PS4 degli sviluppatori “Ready at Dawn” necessita di essere trattato con i medesimi crismi di un rookie NBA. Evitate di prestare troppa attenzione alla durata dell’esperienza, evitate di tirare le somme troppo velocemente. Piuttosto provate a considerare The Order: 1886 come il primo passo verso un mastodontico racconto di un contesto di una Londra vittoriana diventata leggendaria nella memoria dei più “soltanto” per un anonimo Jack abile a squartare prostitute.Se per le altre esclusive Playstation delle quali ho scritto, vedasi The Last of Us, Journey e Heavy Rain, ho sempre avuto la sensazione di essere nell’estrema coniugazione possibile tra cinematografia e videogiochi, con The Order: 1886 ne ho avuta una diversa, forse meno coinvolgente dal punto di vista emozionale, ma è parsa chiara sin dall’inizio un’irrefrenabile associazione con la produzione letteraria del medesimo periodo storico. E come un libro di Mary Shelley o Dickens fatto di atmosfere scure, fumose e a volte fin troppo superficiali, questo gioco fa volutamente delle profondità altalenanti la sua principale caratteristica.Benché siano richieste sette ore scarse per incrociare i titoli di coda, il mondo in cui si viene catapultati è uno sprizzare di dettagli da far venire i brividi a qualsiasi produzione hollywoodiana. Ambientazione, luci, oggetti, arredamenti, così come vesti ed espressività dei volti collimano in una minuziosa esplosione descrittiva possibile soltanto durante la fruizione di un libro. Tuttavia, mi ha personalmente mi ha lasciato perplesso l’interazione tra gli stessi elementi.Durante il discorso ludico si viene trascinati verso un filo narrativo pre-confezionato, interagire con l’ambiente è pressoché impossibile così come gli stessi dialoghi. Tutto deve avvenire come stabilito dagli sviluppatori. Non è un free roaming, sebbene i nostri occhi bramino la rincorsa verso l’ignoto, ci viene chiesto di frenare le nostre pulsioni esplorative e di ascoltare. Il volere degli storyteller di Ready at Dawn, ma anche l’ottima colonna sonora quasi da Grammy.[embed]https://youtu.be/3moOI-ftPLI\[/embed\]Ascoltare una storia perduta quasi all’alba della civiltà, iniziata con la fondazione dell’Ordine dei cavalieri risalente ai tempi di Re Artù. Un ordine preposto alla difesa della città di Londra, ancora capitale del mondo moderno, dalla minaccia dei mezzo-sangue mostri metà uomini metà mannari. Come se non bastasse l’Ordine, la cui resistenza è preservata attraverso i secoli grazie alla Linfa Nera in grado di curare qualsiasi ferita e prolungare quasi all’infinito la vita dei cavalieri, si trova ad affrontare i primi dissidi interni fatti di corruzione e conquista di nuovi poteri.Vivremo un’epoca re-immaginata da una tecnologia ancora visionaria per quel tempo, ma utile agli scopi del nostro protagonista cavalier Galahad. Addirittura aiutato dalle prime invenzioni di un giovane Nicola Tesla. Questa astuzia narrativa consente al nostro personaggio immerso in uno shooter in terza persona di imbracciare armi dalle potenzialità difficilmente viste sin ora dentro un gioco per console, pur mantenendo quasi fedelmente quanto la “ferraglia” di fine ottocento potesse mettere a disposizione.Ed è così che sotto un cielo sempre più scuro a causa dei primi effetti dell’inquinamento all’alba causati dall’industrializzazione, siamo chiamati ad assistere ad un mix stilistico con pochi eguali nella libreria videoludica passata. I frammenti narrativi caratterizzati da filmati video, lasciano spazio in egual misura ai momenti d’azione. Quest’ultimi non vi impegneranno come ci si potrebbe aspettare, gli scontri con i vari nemici sono macchinosi, spesso ripetitivi, ma ben contro bilanciati dalla tipologia di confronto: quick-time event, stealth, scontri a fuoco, sniper.[embed]https://youtu.be/8hxz8IWWzt8\[/embed\]Per questo motivo è così complesso classificare e categorizzare The Order: 1886 sotto un’etichetta prestabilita. Il gioco fa della narrazione un intreccio di dubbi e intrighi in cui il nostro intervento non è atto ad orientare un fil rouge già tracciato, ma piuttosto risolutore, lasciando presagire così un’inevitabile seguito utile a comprendere meglio certi accadimenti volutamente non esplicitati.The Order: 1886 è un’opera d’arte. Un’opera prima. E proprio come quelle espressioni artistiche troppo complesse e allo stesso tempo spartane di difficile comprensione, il gioco prosegue senza sosta attraverso un filo sottile ove ai lati si rischia di scadere nell’eccessive lodi e dall’altra nella denigrazione assoluta.The Order: 1886 è come una donna, forse è questo il paragone migliore, ove nella sua complessa semplicità risulta difficile da comprendere per cui non resta nient’altro che amarla.

Di Birdman, Whiplash e dell’accatastare legna

Il weekend appena trascorso ho fatto una full immersion cinematografica guardando prima Whiplash e subito dopo Birdman.Di solito scrivo di film quando davvero mi lasciano qualcosa, questa volta invece nessuno dei due è riuscito a sedimentare e sviluppare un ragionamento interessante sulle idee proposte o semplicemente su una differente idea di raccontare una storia.È stato strano vederli in sequenza. Il primo incentrato sul kit batteria da musica Jazz, il secondo con una colonna sonora fondamentalmente composta da una sola batteria (suonata proprio da un musicista Jazz, Antonio Sanchez).[embed]https://soundcloud.com/milanrecords/antonio-sanchez-internal-war-from-birdman-ost\[/embed\]Tuttavia, nonostante siano entrambi ben girati, con una buona fotografia, si perdono nei dettagli. In Whiplash i dettagli vengono sottolineati da un’inquadratura mostrando come diventino parte fondamentale del racconto. Ma restano fini a se stessi, non ci dicono di più della storia, se non arricchendo l’attenzione ad essi riservata dal personaggio principale. Birdman soffre dello stesso difetto. Ci sono tanti spunti, tante tracce da cui trarre spunto, ma che sembrano esaurirsi ogni volta su un binario morto e che invece avrebbero potuto portare la storia da tutt’altra parte facendola diventare soprattutto più interessante.Birdman non mi è piaciuto. È stato un buon esercizio di stile del piano sequenza (non del tutto veritiero) e con una solerte interpretazione di attori con molta esperienza, molto consci del messaggio da far passare attraverso le battute del film. Sono piuttosto d’accordo con quanto scritto da Loffio sul suo blog, proprio su quell’effetto legna accatastata ma mai arsa. Tanta carne, forse cotta e consumata con troppa fretta e con dei bocconi troppo grossi.

Ma Birdman non è solo un film sulla voglia di essere qualcuno, è anche una denuncia del “Genocidio culturale”, per usare le parole del film, messo in atto da Hollywood. È un film contro i critici che fanno questo lavoro solo perché non sanno creare, ma anche contro chi si improvvisa artista, è un film sul teatro e le sue follie, è un film sulla fama, ossessiva e assillante, che cresce quando smetti di essere un personaggio e diventi il meme di un social network.

Per certi versi Birdman parla di chiunque abbia un blog, un podcast, una pagina Facebook, un account Twitter, uno spazio su un giornale, in teatro, in radio o in televisione. Parla di quella fastidiosa voglia di non voler mai scendere dalla cresta dell’onda, di sperare che ci sia sempre qualcuno a rendere la nostra vita un successo col suo acclamare.

Il problema è che proprio volendo essere tutte queste cose, finisce poi per non sviscerare nessuno dei vari temi come meriterebbe. Il regista sembra limitarsi ad accatastare ottime idee come fossero legna per il falò, senza mai incendiarle. L’unico vero monologo riguarda il bisogno di voler essere famosi, per il resto i personaggi e gli argomenti rimangono in sospeso, e ogni qualvolta in cui si potrebbe dire qualcosa di più arriva un bel movimento di macchina o una scena d’impatto che svia l’attenzione.

Non è semplice trasformare in racconto filmico momenti significativi dall’alto impatto narrativo. Così come non sempre sono necessarie 2 ore di film per poterle mettere in scena. La grandezza dei migliori registi probabilmente sta proprio lì, ma quando sembra di avere la sensazione di fare il morto su uno specchio d’acqua molto grande, invece di immergersi per ammirare la barriera corallina, allora lo storyteller si dovrebbe prendere tutto il tempo necessario, sfidando magari le regole imposte dal mercato cinematografico.

U Barba. Osteria Genovese

Se dovessi pensare al mestiere della vita, oltre a scrivere di videogiochi, probabilmente sarebbe quello di dedicarmi alla critica gastronomica. Sebbene abbia, con leggero o scarso successo decidete voi, con il passare degli anni affinato le tecniche di scrittura, non credo di essermi mai applicato a sufficienza ad un’attività (Visintin afferma non essere un mestiere) per la quale non sento ancora di non possedere sufficienti terminologie a vocabolario.Strano a dirsi, avendo in famiglia uno chef.Ad ogni modo proverò, quando possibile, a farlo più spesso. Nonostante i 16 kg. persi di recente, mangiare bene resta ancora nella top 5 dei piaceri della vita. Dopo La Cantina della Vetra e il Ristorante Macelleria Motta è la volta di U Barba Osteria Genovese e Bocciofila.La mia famiglia, e io di conseguenza, è particolarmente legata alla Liguria e alla città di Genova. Tra i tanti motivi c’è proprio quello culinario. Tuttavia abitando nella provincia milanese non sempre è possibile salire in auto per un pranzo fuori porta e ritorno. Perciò l’aver trovato qualche anno fa U Barba proprio a Milano è stato come avere un pezzettino di costa ed entroterra a mezz’ora di auto da casa.

Il locale

Ricordo. Si ricordo non appena la guardo la prima volta in cui misi piede da U Barba, qualche evento dell’Internet, di quelli che si facevano anni fa e dove ci si trovava tutti a darsi grandi pacche sulle spalle senza nemmeno conoscere il vero nome dell’altro. 2010 Social Media Week. Di fronte alla bocciofila, tornando all’interno del ristorante si scopre anche l’area estiva, sfruttata con le dovute coperture anche durante l’inverno.

Come si mangia

Bene sarebbe troppo poco. Troppo riduttivo e banale. Ma è così e da aggiungere ho solo questo. Vi deve piacere la cucina ligure, leggera e robusta allo stesso tempo, composta da verdura e lievi fritture così come gusti particolari, ma sempre delicati.Questo è il menu (si ingrandisce se ci cliccate sopra) da gennaio ad aprile escluso. Varia di poco, come è facile intuire dal sito, con il cambio delle stagioni, in modo da restare sempre fedele a se stesso con il passare del tempo. Pochi i piatti proposti, scelta importante, garanzia di eccellenza. I prezzi contenuti sono ampiamente adeguati in rapporto alla qualità.

Le attenzioni particolari vanno verso la scelta di prodotti liguri selezionati: l’olio di olive taggiasche di Dolceacqua, il vino Nostralino imbottigliato a Portofino o il basilico fresco utilizzato per il pesto.Come vedete la scelta è ampia sia per i carnivori che per gli amanti del mare, ma appartenente alla prima categoria sento di consigliarvi una porzione di focaccia al formaggio (ho abitato a Recco per oltre 11 anni, fidatevi la sanno fare), seguita da una di pansoti in salsa noci.

Ecco, qui mi scuso perché so di aver commesso un errore grave. Del resto non occupandomi di cibo su questo blog non ho fotografato nient’altro del cibo mangiato se non il primo, ma per la semplicissima ragione di una famelica attrazione da soddisfare entro pochi secondi. Cercherò di fare meglio la prossima volta. Fortuna sul sito ci sono fotografate già tutte le pietanze.Consiglio di iniziare con la combinazione di due ordinazioni, le porzioni sono sempre abbondanti e in grado di appagare anche gli appetiti più grandi. E poi ci sono sempre i dolci, forse poco tipici liguri, ma ottimi lo stesso.Infine, per dare un giudizio conclusivo a una delle mie destinazioni preferite e dove vado ogni qual volta sono alla ricerca di sicurezza, voglio adottare il sistema di valutazione utilizzato da un collega di Microsoft, Andrew Kim, sul sui Minimally Minimal. Invece di usare dei voti per i suoi luoghi culinari, utilizza delle stelline.★★★☆A U Barba sento di darne 4 su 5, è per certo uno dei pochi posti sul quale metterei sempre la mano sul fuoco, ma da qui ad avere un’esperienza mistica ce ne passa. Quindi sfrutterò quell’ultima quando ne varrà davvero la pena.Il sabato sera tende ad essere un po’ affollato, vi consiglio la domenica a pranzo e chissà che non ci si veda lì la prossima volta. Da provare almeno una volta nella vita, perché pochi locali sono in grado di esaltare le caratteristiche regionali dei piatti senza dimenticare le proprie origini anche se creati e consumati da tutt’altra parte.

The Last of Us Remastered

Sia lo si faccia per lavoro, sia per passione, riuscire a portare a termine un videogioco per poterne scrivere una recensione è un’operazione complicata.I siti di news sul tema, così anche Fuorigio.co, vi offrono un panorama più completo possibile, ma difficilmente chi sta scrivendo è mai riuscito ad arrivare alla schermata finale se non molto tempo dopo dall’uscita dell’articolo. Mano sul fuoco, io compreso.Tuttavia, questa volta ho voluto aspettare. Un’attesa necessaria. Sì, perché The Last of Us, e ancor più nella sua edizione Remastered per PS4, entrerà di diritto tra la schiera di quei videogiochi da prendere in considerazione nell’argomentare la loro vicinanza alle opere d’arte.Come ad esempio Journey, vicina ad un quadro, oppure Heavy Rain molto affine ad un girato cinematografico. Ecco mi è allora impossibile raccontarvi di The Last of Us Remastered se non iniziando col dirvi di immaginarvi una perfetta amalgama tra un romanzo thriller, un film d’azione e una serie tv drammatica.

The Last of Us Remastered è un testamento di come lo storytelling affondi le proprie radici nel nostro ancestrale bisogno di immergerci in una storia. Certo, è un survival horror ed è probabilmente la definizione più giusta se fossi costretto ad incasellarlo in un perimetro omogeneo. Tuttavia è molto di più.Un racconto emozionante, da vivere e da gustare come meglio crediate. Sta a voi decidere come affrontare le 15 ore di gioco (in media) che vi si presentano davanti: come un unico lungo film, oppure una serie a puntate. Ho optato per la seconda, magari arrugginendomi un po’ con i comandi, ma addentrandomi ad ogni sessione in un contento difficile da abbandonare.Il tema di fondo è quello che va per la maggiore da qualche anno a questa parte. Un virus letale ha ridotto la popolazione umana in poche centinaia di migliaia di unità, costretta a convivere con chi si è “trasformato” in Runner o Clicker a seguito del contagio.Joel sopravvive. Joel combatte ogni giorno la propria battaglia dopo aver perso tutto. Iniziando dalla propria famiglia. Imbattendosi dapprima ne Le Luci, un gruppo organizzato para-militare il cui unico scopo è quello di provare a trovare una cura a questo fungo misterioso e successivamente in Ellie, una ragazzina di 14 anni che lo accompagnerà in questo viaggio verso la speranza di un mondo risanato.Come sapete abbiamo già recensito The Last of Us. E qui vorrei parlarvi di cosa troverete in questa versione aggiornata.Si perché The Last of Us Remastered è un gioco, come suggerisce il nome, rimasterizzato. E’ il perfezionamento di un’opera già perfetta su Playstation 3 e migliorata per diventare un ulteriore capolavoro su Playstation 4 evitando di sfigurare con qualsiasi altro titolo nato e pensato per le console di nuova generazione.Le differenze con il fratello maggiore, risiedono soprattutto nel comparto grafico. Gli sviluppatori Naughty Dog, gli stessi della serie Uncharted, hanno lavorato per oltre sei mesi per garantire nel 95% del gioco una solidità di 60 frame al secondo, introdotto la modalità Photo Mode (con cui è possibile fare degli scatti fantastici del gioco), 1080p di risoluzione, definizione texture di quattro volte superiori rispetto a Ps3.

Non finisce qui, troverete già disponibile l’espansione single player “Left Behind” che percorre il percorso di maturazione di Ellie, le 8 mappe di “Terrori Abbandonati” incluse nel DLC, così come la modalità Realismo. Una modalità molto ostica, come suggerisce il nome, dove non vedremo i colpi a disposizione ne l’arma selezionata e dei nemici davvero ostici. Insomma, gli amanti della strategia e dell’attesa sono stati ulteriormente accontentati. Interessante l’utilizzo dello speaker integrato nel DualShock 4, sfruttato per gli effetti di accensione/spegnimento della torcia, così come per l’ascolto dei diari audio trovati da Joel durante la sua avventura.Non male, anche se il lavoro non è stato mastodontico, fortuna maturata grazie al fatto che già The Last of Us fu pensato come un titolo cross-gen, in grado di sfruttare quanto di meglio la passata generazione di console avesse da offrirci.

Benché Paolo vi abbia già condiviso tutto quello ci fosse da dire sul gioco originale, non mi resta che concludere con una mia personalissima disanima su cosa è stato per me questo titolo e di quali significati si carica.Questo gioco ti arriva come un pugno nello stomaco. È capace di frustrarti nelle fasi di azione ed emozionarti come poche altre produzioni multimediali sono in grado di fare nelle cut-scenes degne di Hollywood. Riesce nell’arduo compito di amalgamare al suo interno le migliori caratteristiche fondanti della nostra cultura: l’attrazione di una trama da romanzo, un’eccezionale colonna sonora a firma Gustavo Santaolalla in grado di sottolineare con forza i momenti toccanti così come quelli ad alta tensione, panorami e ambientazioni da fotografia mozzafiato e dialoghi mai banali (doppiati perfettamente da attori veri).Sotto l’aspetto ludico non c’è nulla di rivoluzionario lo ammetto, anzi, difficilmente interagiremo con tutto ciò che ci circonda, ma una grande regia e storytelling sono in grado di indirizzare l’esperienza sui binari dell’empatia e introspezione impossibili da assecondare, ma soprattutto da abbandonare se non ai titoli di coda.L’acquisto di Playstation 4 vale la pena anche solo per questo gioco al momento, anche se avete già apprezzato la prima versione sulla console precedente. Un consiglio veramente spassionato, non lasciatevi scappare, a detta di molti, uno dei più importanti capolavori videoludici di tutti i tempi.

Breaking Bad. Questione di chimica

Il post che segue parla della serie televisiva Breaking Bad. Contiene spoiler e riflessioni sulla serie stessa, quindi ti conviene leggerlo solo dopo averla vista. Sono considerazioni personali e punti di vista dopo aver visto una delle migliori produzioni degli ultimidecenni.

Diciamo pure che mi serviranno soprattutto da memoria. Ogni volta in cui vorrò ricordarmi di come mi sono sentito vicino così tanto ad un prodotto multimediale, umanamente parlando, tornerò a rileggere queste righe e magari a rimettere in circolo uno dei Blu-Ray con le puntate di questa serie TV.Sentii parlare di Breaking Bad per la prima volta nel 2010. Confesso di aver iniziato a guardare anche le prime 3 puntate, ma non so bene per quale motivo decisi di smettere altrettanto presto. Probabilmente con poca pazienza, commisi l’errore di non dare fiducia a quella che poi si è rivelata una delle mie produzioni televisive preferite.La serie è terminata ormai da oltre 1 anno e quasi tutti i miei amici appassionati seriali non facevano altro che ripetermi la medesima frase: non sai cosa ti stai perdendo. Così dopo l’estate appena trascorsa recuperai tutta la serie e iniziai molto lentamente a snocciolarla per bene. Arrivando a ridosso delle vacanze natalizie all’inizio della quarta stagione. Ho fatto una maratona, tutta d’un fiato di quasi 25 puntate. Una droga. E scusate il gioco di parole.La bellezza di questa serie sta nel fatto di non sapere mai ciò che sta per accadere, o meglio ce lo si può immaginare, ma non è mai come ce lo siamo pre-figurati nella nostra testa. Ciò che possiamo però tenere presente è uno schema ben preciso, ci sarà sempre una trasformazione a seguito di un’azione. Una metamorfosi continua ed inesorabile. Una costante presente per tutte le stagioni che faranno sembrare sconosciuti i personaggi così come li abbiamo incontrati nelle primissime puntate.A mio, personalissimo, parere la serie si sarebbe dovuta concludere con l’ultima puntata della 4a stagione. Stupenda. Walt vince la sua lotta contro un criminale più potente di lui, ha l’occasione di fermare la macchina e finalmente godersi in pace il frutto di tutte le atrocità di cui si è ritrovato protagonista. Invece è incapace di fermarsi. Perché farlo quando ora si ha la possibilità di dettare legge?Ho trovato questo post particolarmente interessante in cui vengono associate alcune delle 48 leggi del potere a Breaking Bad. Tra le quali ce n’è proprio una che Walt ha deciso di non seguire, quella di fermarsi in tempo:

Law 47: Do Not Go Past the Mark You Aimed For: In Victory, Learn When to Stop — From the beginning, Walt wanted to just make enough money to provide for his family when he would die from cancer. Finding out he had more time to live was the point where his greediness kicked in. Saul proposed he leave and get a fresh start. Skyler proposed he leave the business, while showing him his enormous stack of earnings. Walt finally decided to leave the business, but he dug himself too big of a hole. He just couldn’t bring himself to stop. As Walt said himself, “I’m in the empire business”. Enough was never truly enough.

Walter Hartwell White

Walt è l’antieroe per eccellenza, è un uomo di mezza età sfigato ed è con facilità imbarazzante il modo in cui si entra in empatia con lui. Nonostante abbia più o meno tutto, la vita lo schernisce continuamente facendosi sentire con tutto il peso della sua normalità. Già dalla prima puntata si percepisce il suo profondo bisogno di sentirsi vivo. Bisogno ribadito nell’ultima puntata in cui confesserà a Skyler quando si sentisse vivo nell’impersonare Heisenberg.

I did it for me. I liked it. I was good at it. And I was really… I was alive.

La magia però di questa serie sta nel riuscire a mantenere vicino a noi la natura di questo personaggio. Nonostante la montagna di soldi a disposizione e una scusante molto forte nel guadagnarli, Walter non si trasforma mai nel Montana di Scarface, non vive una vita lussuosa, ma anzi è in costante fuga da se stesso e dai guai che il crimine porta con se. Questa dimensione umana fa si che non ci si allontani mai troppo da lui, quasi come se riuscissimo a giustificare tutte le azioni compiute.La sua maschera, il suo diventare super eroe facendosi chiamare Heisenberg si rivela in realtà una distinzione destinata a sparire nel corso delle puntate. Piuttosto sembra essere il vecchio Walter la maschera di un uomo senza scrupoli e molto attento ai dettagli di come conduce la sua vita criminale. E nonostante le bugie, i tradimenti, gli omicidi e l’egoismo non riusciamo ad odiarlo perché ci si immedesima in qualcuno a cui hanno diagnosticato pochi mesi di vita. Ma soprattutto si comprende molto bene come la miccia a dare il via al tutto sia proprio la diagnosi del suo cancro ai polmoni. Di colpo smette di avere paura e di preoccuparsi, come se finalmente avesse uno scopo da portare a termine prima della sua morte prematura.Non ultimo Walt è il protagonista di una tragedia reale, non è un film e nemmeno un telefilm dove può sempre farla franca. La conseguenza delle sue scelte lo porteranno alla morte e a perdere la sola cosa per la quale non ha mai smesso di lottare: la sua famiglia.“La familia es todo” la famiglia è tutto dicono i due gemelli messicani a metà della terza stagione. Un argomento attorno al quale, non è difficile accorgersene, Breaking Bad poggia con fermezza le sue basi. La famiglia è il motivo primo, la giustificazione perfetta di Walt a qualsiasi azione criminale compiuta nel corso dei due anni in cui ha iniziato a sconvolgere il corso delle vite di tutti coloro abbiano avuto a che fare con lui. I cui componenti non dovevano essere toccati da nessuno, di cui anche Jesse in qualche modo entra a far parte.Di questa trasformazione ne parla ampiamente e molto bene Fabrizio Rinaldi nella sua tesi di laurea pubblicata su Medium.

Heisenberg

Caos morale di cui è il fautore. Heisenberg non è un nome a caso scelto dagli autori della serie per definire l’alter ego di Walt. Heisenberg è un fisico tedesco noto per il suo principio d’indeterminazione di due forze fisiche. Se avete visto la serie, è facile associare questa teoria con ciò che Walt e Heisenberg (il personaggio di BB) rappresentano. Sotto il video di TED e qui un articolo di come comprendere al meglio questa associazione.

Jesse BrucePinkman

Walter voleva bene a Jesse, gliene ha voluto fino alla fine, finché non è stato ad ascoltarlo come ha sempre fatto per il corso di 4 stagioni. Walt si è comportato come il padre che non si è mai riuscito ad accontentare, con Jesse nel ruolo del figlio sempre pronto a fare di meglio per poter entrare nelle sue grazie. Un rapporto molto più caldo e complesso con il passare delle puntate, fino ad arrivare al punto in cui Walt comprende l’animo buono del partner e a non riuscire più a fare meno di lui. Ma quella sensazione di manipolazione mai doma, sempre assopita nell’animo di Jesse, esplode proprio sul finale forse rovinando ancora in maniera peggiore tutto quello che i due hanno costruito insieme, vendendosi alla DEA.Ci vogliono, come detto, 4 stagioni per arrivare alla sua di trasformazione. Con il culmine della sua nuova personalità acquisita quando si permette di fare la voce grossa giù in Messico nel laboratorio del Cartello. Tuttavia ha sempre dimostrato un debole particolare per le persone che lo hanno amato, soprattutto per i più piccoli, toccato da quel senso di protezione da fratello maggiore non ha perdonato a Walt il fatto di averlo convinto che fosse stato Gus ad avvelenare il figlio della sua fidanzata Andrea. Questo rimarrà per sempre il suo punto debole e anche a pensare di vederlo come sostituto di Walt si capisce come non ne avrebbe la freddezza.Perché Jesse non ha uno scopo come Walt, è vittima degli eventi e della sua svogliatezza nei confronti della vita. Accetta di essere complice in queste (dis)avventure perché altrimenti non avrebbe di meglio da fare se non strafarsi tutto il giorno. Mentre essere occupato a cucinare metanfetamina significa guadagnare molti soldi.Gli ultimi istanti della 5a serie ci mostrano come il cambiamento è completato. Jesse ha svestito i panni del tossico pigro e grazie al periodo di prigionia ha compreso come la vita valga la pena di essere vissuta (vedi la costruzione della scatola di legno) arrivando al grido liberatorio di felicità nella sua ultima inquadratura.

Skyler White

Anna Gunn, l’attrice interprete di Skyler, ha scritto questo articolo sul NY Times su come non riuscisse a comprendere il motivo di tanto odio nei confronti del ruolo da lei interpretato. Un fastidio condiviso anche dal sottoscritto. Nella sua dissertazione centra pienamente il punto, Skyler è il vero antagonista di Waltdiventando per necessità moralmente uguale a lui. Tuttavia non prende mai una posizione chiara, è una montagna russa di emozioni e atteggiamenti. Dapprima facendo quasi finta di preoccuparsi del marito adottando lo stesso modo di comportarsi di Marie, la sorella. Per poi alternare le fasi di disprezzo totale nei confronti del marito una volta scoperta la sua attività con quelle di protezione e amore nel momento i cui riflette sulla protezione della famiglia e la montagna di soldi a cui può attingere. Questo suo tentennare l’accompagnerà sino alla fine, dove l’amore latente per Walt le impedirà sempre di dire la verità alla polizia.Un comportamento rimarcato molto bene da suo figlio Walter Jr. in uno dei dialoghi della terzultima puntata: Sei cattiva quanto lui (mio padre Walt) se sapevi tutto dall’inizio e non hai fatto nulla.

Altri personaggi

Hank è uno dei pochi ad aver subito un’involuzione invece. Il suo fare da spaccone americano con distintivo si affievolisce sempre più alla scoperta del cancro da parte del cognato, ma anzi arriva ad essere un confidente fidato per aiutare Walt a sistemare i suoi problemi coniugali con Skyler. Addirittura sopporta di ospitare i nipoti per lungo tempo proprio per dimostrarsi altruista nei confronti dei cognati.Marie invece è la sola ad aver mantenuto la stessa caratura all’interno della narrazione nel corso di tutte e 5 le stagioni. Il suo ciarlare, intervenire con superficialità e qualche volta fuori luogo ha fatto da sottofondo alle vicende ben più cruente in fase di accadimento a pochi chilometri da lei. Quasi fosse anch’essa una spettatrice dello spettacolo tanto quanto i fruitori della serie.

Colori emusica

Questa serie fa un utilizzo maniacale e pregevole dei colori, così come della musica. Fino ad arrivare, come ho scritto più avanti, ad un mix perfetto tra i due. Nel corso degli anni i fan si sono divertiti a fare una raccolta dei primi e su Internet trovate qualche sito interessante al riguardo. I due in grado di farvi comprendere come i colori in questa serie riflettano quel senso di trasformazione citato prima sono The Wardrobe of Walter White

E il set di colorazione dei vestiti di tutti i personaggi principali della serie Colorizing Walter White’s Decay

Gran parte della colonna sonora di Breaking Bad (che potete ascoltare qui sopra) riflette gli stati d’animo così gli stili di vita dei personaggi e spesso e volentieri viene utilizzato il testo delle canzoni per sottolineare un momento topico dell’azione. La combinazione tra musica e colori poi esplode in tutta la sua magnificenza due volte. L’importanza della scena finale di Breaking Bad, infatti, è costruita anche grazie ad una robusta scelta di una calzante canzone (Baby Blue) difficilmente equiparabile ad altri momenti filmici della storia contemporanea. La catarsi si attua con la prima strofa:

Guess I got what I deserved

Ho avuto quello che mi sono meritato. Per poi proseguire con:

Special love I’ve for you, my baby blue

Un amore speciale per quella piccola blu, la metanfetamina da quel colore così particolare.Amore dichiarato anche qualche puntata prima, quando Walt insieme a Todd iniziano una breve routine di cucina. E qui la canzone scelta è stata Crystal Blue Persuasion. Non posso che ribadire la genialità di questi due abbinamenti.

Come si può, infine, non lodare l’aver messo una canzone dialettale italiana tra la colonna sonora della serie?

Felina

Ci sarebbero tantissime cose da dire e aggiungere — tipo che Gus è uno dei due ragazzi in carcere insieme a Eddie Murphy in “Una poltrona per due”, di come esista per davvero un Walter White in Alabama cuoco di meth, di come il titolo dell’ultima puntata sia Felina che è l’anagramma di Finale e la combinazione di alcuni elementi chimici, o delle easter eggs (la mia preferita resta quella del pupazzo) — ma il web è pieno zeppo di tutto ciò e non vi resta che andarne a caccia.Breaking Bad mi mancherà, mi sarebbe piaciuto sapere come mai un giovane e brillante Walter White prossimo al Nobel si sia ritrovato a fare l’insegnante e nella più totale mediocrità a 50 anni. Mi sarebbe piaciuto sapere che fine avrà fatto Jesse dopo quello sguardo d’intesa con Walt prima di fuggire verso la libertà. Per fortuna alcuni personaggi torneranno nel prequel Better Call Saul, ma tant’è la verità è che a Breaking Bad non restava nient’altro da aggiungere se non terminare come è terminato.

Written by Andrea Contino since 2009