Non si può più dire niente

Ho pensato a questo post per diversi giorni. Forse settimane. Da quando, già da prima dell’uscita di Hogwarts Legacy, imperversavano online assurde teorie sul dover boicottare un gioco perché trae ispirazione dalle opere di una persona con idee fuori dal tempo. Assurdo. Tanto da dover spingere gli sviluppatori a spiegarsi nella sezione FAQ.

Update. Colgo lo spunto di Daniele di Frequenza Critica per linkare questo:

Sia come sia, voglio chiudere questo lungo articolo linkandovi una bella iniziativa dellɜ nostrɜ amicɜ di Gameromancer. Qui trovate un elenco di content creator e attivistɜ appartenenti alla community LGBTIQA+, nonché videogiochi indipendenti che affrontano le tematiche di genere. Buttateci un occhio.

Poi passiamo ad Atomic Heart. L’opera prima della software house Mundfish con base a Cipro e con un’ambientazione sovietica subisce da settimane ogni tipo di accusa. Dal passare dati alla Russia, al sostenere il regime di Putin ad aver fatto apposta ad averlo lanciato nei giorni in cui cade l’anniversario dell’inizio del conflitto con l’Ucraina. Niente di tutto ciò è vero, ma sta alimentando il carrozzone di quelli “È legato in qualsivoglia maniera alla Russia? Allora è merda”.

Finiamo con le fiabe di Roald Dahl. Di cui ho letto da piccolo il GGG. Nient’altro. Non sono cresciuto con opinioni razziste, né tantomeno sprizzo disuguaglianze da tutti i pori. Eppure la società che ne detiene i diritti sta mettendo in atto una massiccia riscrittura di alcuni passaggi di tanti libri dell’autore per non urtare la sensibilità dei futuri piccoli lettori.

Questi tre episodi sono accomunati da un minimo comun denominatore. I paladini del me-me-me-poor-me si ergono a paladini delle disuguaglianze ripagando con la stessa moneta e attenzione superficiale creatori, artisti e in generale persone di cultura colpevoli di avere un certo tipo di connessione con un’opinione a loro non conforme o semplicemente per aver vissuto nel passato ed essere figli e figlie del loro tempo.

Poi ho trovato questo post di Giuliana. E come spesso mi succede c’è qualcuno che riesce a esprimere quanto avessi da dire molto meglio:

La scrittura, la narrativa in modo particolare, descrive mondi che hanno loro linguaggi specifici e usa le parole che sono tipiche dei tempi in cui vive l’autore, a meno che l’autore non crei parole che vengono utilizzate nel mondo che sta descrivendo che non coincidono con le parole del vocabolario utilizzato nella sua lingua. Vedi J.K. Rowling in Harry Potter. Peraltro stiamo parlando proprio di una persona che si ritiene vittima del politically correct e che viene boicottata a causa delle sue idee transfobiche.

Di fatto la riscrittura dei libri di Roald Dahl, un uomo nato in un’epoca diversa, con sensibilità diverse ed espressioni decisamente meno attente ai sentimenti altrui (ma, oh, era così e nessuno, nemmeno chi si sentiva offeso, avrebbe mai pensato di chiedere un linguaggio differente, può chiederlo ora a chi arriva dopo, ma ancora oggi non lo chiede ai suoi nonni, per dire, perché non otterrà nulla di nulla) è un’aberrazione.

E francamente non serve a niente. Perché i bambini che leggono Roald Dahl non imparano quel linguaggio dai libri. Casomai se lo trovano in quei libri saranno spinti a chiedere perché ci sono parole che non sono consentite nel linguaggio di tutti i giorni e se sono bambini abituati a fare domande agli adulti che li circondano chiederanno.

Il problema invece è che esistono adulti spaventati all’idea che i bambini facciano domande. Che possano mettere in crisi la loro tranquillità. Che richiedano tempo per delle spiegazioni spesso impossibili da dare perché molti adulti non hanno idea di come spiegare le cose importanti ai bambini.

Allora che facciamo? Togliamo il problema. Riscriviamo i libri.

Cresciamo generazioni di bambini che non devono avere dubbi e non devono fare domande che mettono in crisi.

Non è cancellando il passato che si costruisce un futuro migliore. Anzi, tutto il contrario.

Piaceri

Faccio fatica a comprendere il perché abbiamo deciso di adottare il termine guilty pleasure dalla lingua inglese. Perché un piacere deve essere peccaminoso? Perché deve farci sentire in colpa?

È un piacere perché ci fa star bene, non perché deve portarci a farci soffrire. Sempre con questo maledetto giudizio altrui, l’accettazione dell’apparire. L’essere è talmente sottovalutato oramai che si fa di tutto per stigmatizzarlo.

Ad esempio. Io adoro guardare dentro le case degli altri. Quando ci sono le finestre aperte, quando ci passo affianco durante una passeggiata. No, non sono un guardone, tantomeno un malato di mente. Adoro il design d’interni e adoro assistere a come altri umani hanno deciso di sistemare il proprio posto sicuro.

Devo sentirmi in colpa? Non ci penso proprio. Potrei andare avanti e fare un elenco infinito di cosa mi piace e cosa no. Purtroppo sono arrivato a un punto dove lascio totalmente correre, un punto dove ho imparato a rispettare e apprezzare le differenze che ci caratterizzano. Spesso non avviene il contrario, ma non me ne preoccupo troppo. Vivo lo stesso.

Hard Disk o Cloud?

Di base una domanda inutile. I servizi Cloud sono spazio su disco di qualcun altro benché lontanissimo dai nostri occhi. L’unico motivo per cui sono portato a scegliere sempre la seconda opzione, e quindi appoggiarmi su servizi terzi che si occupano di storage online, è la presunta infallibilità.

Ovvero, si presume che, per il prezzo pagato, i dati conservati sull’hard disk di un’azienda che fa quello di mestiere non siano mai in pericolo e che se anche dovessero esserci dei malfunzionamenti, i nostri dati in qualche modo siano sempre recuperabili.

No, questa non è una storia triste su come io abbia perduto miseramente i miei dati per averli affidati ad aziende malefiche pronte a spillarmi i soldi in cambio dei miei preziosi file. Tutt’altro. Mi sono imbattuto, anzi, in questo studio fatto da BlackBlaze che dal 2013 analizza il mercato. Nel 2022 oltre 230.000 hard disk di 29 dimensioni avendone a disposizione 60 campioni per ciascun modello, mai utilizzati prima.

Ora non sono esperto in materia, ma oltre 1% di fallimento degli hard disk, soprattutto quelli con una data più avanzata d’età, a me preoccupa. Perché se decidi di salvare tutta la tua vita su un solo disco, e non tieni conto di queste cose, beh forse dovresti iniziare a preoccuparti e prendere delle precauzioni.

Poi, sarà che starò invecchiando e quindi ho un’apprensione sempre più crescente nel pensare di perdere i miei ricordi digitali, ma è da quasi un anno e mezzo che sincronizzo tutto su tre servizi differenti e dormo tranquillo.

Ah, non comprate Seagate a quanto pare…

Spotify Car Thing. Un inutile oggetto utile

Ho scritto decine di post sui servizi di streaming musicali. Alla fine mi sono arenato su Spotify in attesa del tanto sperato Hi-Fi. E da vero feticista, una volta notato il suo utilizzo bislacco, non ho potuto fare a meno di accaparrarmi uno Spotify Car Thing.

Questo device, ormai dismesso dalla produzione, è stato pensato da Spotify per dotare di un’interfaccia semplice e veloce quelle macchine abbondantemente vetuste ancora sprovviste di un sistema d’infotainment sufficientemente capace.

Perché acquistarne uno, a un prezzo così alto (l’ho pagato circa 90 euro, mentre veniva commercializzato a poco più di 30$) per tenerlo in casa? Semplice, perché grazie alla funzionalità Spotify Connect ciò che si sta ascoltando su un device, può essere riprodotto anche su un altro. E sebbene Car Thing sia pensato per funzionare in bluetooth con uno smartphone, è sufficiente selezionare il vostro computer desktop come fonte di trasmissione per comandare il tutto da questo piccolo schermo.

Lo so. È inutile se ci si pensa. Ma è estremamente comodo quando si hanno mille finestre aperte e si vuole skippare una canzone, alzare o abbassare il volume, far partire una playlist preferita. Senza contare che si aggiungono anche i comandi vocali, seppur in inglese, con cui comandare il tutto.

Insomma, come detto, un aggeggio da veri feticisti, ma estremamente comodo se passate tante ore al computer e la musica è la vostra fidata compagna.

L’ho acquistato su eBay, nuovo, a quasi 90 euro. Lo trovate anche su StockX, ma i prezzi si stanno alzando parecchio.
Vedremo fin quando Spotify lo supporterà, visto che c’è una pagina dedicata agli update dello stesso. Nel frattempo, buon ascolto!

Perdona il vocale

Quando ti chiedo di perdonarmi per i miei messaggi vocali, ti sto dunque dicendo questo: che non voglio “toccarti”, irrompere nella tua bolla con la forza dell’affabulazione e la potenza della mia voce, ma anche che vorrei tremendamente farlo. Oppure, al contrario, dicendo “Perdona il vocale”, esprimo il desiderio di utilizzare questo mezzo al massimo delle sue possibilità (narrative e sonore) ma anche la consapevolezza che tutto ciò non è possibile (è mai possibile “godersi un vocale”?). Come nella segreteria telefonica di un vecchio film, vorrei lasciare messaggi romantici e frasi sulle quali dormire sopra, discorsi che fanno sognare o quantomeno da meditare. Come in un podcast, vorrei poter avvolgere e coinvolgere con i fili della trama, appassionare, tenere compagnia a distanza con parole, musiche e suoni ambientali, senza perdipiù la pretesa di ricevere indietro una risposta. Se davvero è il walkie talkie a prendere il sopravvento, orientando il messaggio vocale verso le funzioni per così dire “referenziali” e “persuasive”, fatte di riferimenti geografici e parole d’ordine, si abbia almeno il coraggio, ogni tanto, di concludere la conversazione con un bel “passo e chiudo”!

Forse prima o poi smetteremo di chiedere perdono per i vocali. Forse stiamo già smettendo e – lungo il filo del medium – nuovi possibili incipit combattono l’uno con l’altro per l’egemonia, per riuscire ad esprimere sinteticamente che cos’è e che cosa sta diventando Whatsapp (o chi per lei).

Che bello questo post sui messaggi vocali di Francesco Zucconi. Da quando sono arrivati il mio rapporto con essi è cambiato, forse, drasticamente. Inizialmente li consideravo nocivi, terribilmente noiosi e spesso sostituiti dalla domanda: ma non facevano prima a chiamarmi?

Con il passare degli anni, però, li ho rivalutati estremamente. Pur non amando il suono della mia voce, forse mi disturbano ancora di più le telefonate. Ed è da questo probabilmente che deriva la mia riconsiderazione.

Ci sono messaggi per cui la voce è essenziale, farne capire i toni, le sfumature, per cui servirebbero molte più parole scritte. Molte più perifrasi per esplicitare meglio il senso di quanto scritto. Ci sono occasioni in cui non si vuole disturbare con una telefonata, orari in cui non ci si può permettere di farlo, ma si rende necessario comunicare in maniera più personale, più calda.

Non dico di preferirli. Anzi, se posso cerco di evitarli in toto. Ma ecco, se inizialmente non te lo saresti mai aspettato da me, ora se lo ricevi vuol dire che devo dirti qualcosa di importante e che necessita una spiegazione puntuale, ma che al tempo stesso non voglio romperti i coglioni e te lo puoi ascoltare quando vuoi.

Come sbloccare il controller di Google Stadia

Il 18 gennaio 2023 è stato l’ultimo giorno di onorato servizio per Google Stadia. Una chiusura con i fiocchi, da cui tante altre aziende intenzionate a dismettere un loro servizio dovrebbero prendere esempio. Tutti i giochi rimborsati, tutto l’hardware pure, un gioco creato apposta per l’occasione e la mossa finale anti-spreco: lo sblocco del controller per altri utilizzi.

Il pad di Stadia infatti funzionava con un sistema ibrido tra Wi-Fi e bluetooth e non era utilizzabile se non soltanto sulla piattaforma di Google. Con l’addio al servizio ci saremmo trovati con milioni di pad da gettare in discarica, mentre con questo tool in meno di tre minuti e con un browser basato su Chrome si possono sbloccare e utilizzare con questi dispositivi:

  • Windows 10 and 11 + Steam
  • MacOS® 13 + Steam
  • ChromeOS
  • Android

Ho provato subito con MacOS sul mio MacMini e ho giocato un po’ ad High on Life. Mi sembra la mappatura dei tasti segua pedissequamente quella di Xbox, tranne per il tastone home che riporta alla pagina “Giochi” del Mac così come il tasto cattura sembra non funzionare.

L’ho attaccato con il cavo all’Xbox e non dà segni di vita.

Mentre funziona bene con Steam Deck.

Diciamo che per durata di batteria, praticità e il fatto che odio gli sprechi, diventano un’ottima alternativa da portare nei miei viaggi per giocare in Cloud ai giochi Xbox su Mac e con Steam Deck nel suo utilizzo domestico via TV.

Esistono anche guide specifiche per sbloccare il controller e fare pairing con Xbox e PlayStation, ma vi basta googlare per trovarle.

God of War Ragnarök

Avete presente quando dopo qualche anno di attesa vi ri-immergete nella vostra serie TV preferita? Oppure, quando dopo tanto aspettare arriva il momento di poter leggere le prime pagine di una saga letteraria per la quale siete andati in fissa da tempo?

God Of War Ragnarök mi ha regalato le medesime sensazioni. Affidabilità, un ambiente familiare, un combat system (seppur leggermente migliorato) di facile apprendimento e padronanza, l’immersione totale in mondo lasciato sospeso per un periodo troppo lungo e nel quale ero desideroso di tornare.

Questo nuovo capitolo (e forse ultimo) della saga norrena, in cui Kratos invano cerca di starsene in pace, è in realtà un nuovo viaggio verso la maturità da padre, verso la comprensione di lasciar sbagliare il proprio figlio, Atrues/Loki, pur sapendo di averlo equipaggiato di tutti i consigli possibili per affrontare il suo percorso. È la consapevolezza di dover lasciare andare un ragazzo ormai diventato uomo al quale non ha più niente da insegnare, ma anzi da cui dovrà iniziare a imparare.

Il tema della paternità, il vero caposaldo di tutto il racconto, fa da sfondo alle solite epiche battaglie fra Dei sempre seminudi nonostante il freddo barbino delle terre nordiche. Ci sono due modi per affrontare il gioco. Abbracciare la sua nuova natura open world e quindi lasciar perdere la storia principale perdendosi tra i vari regni e farmando come un animale, oppure tenere la retta via e completare il gioco immediatamente, riservando la prima attività a tempi migliori. Io ho deciso di optare per questa seconda strada e ho terminato il gioco in poco meno di 35 ore. E forse ho sbagliato.

Sì, perché adesso che l’ho terminato non sento nessun bisogno di andare ad esplorare, non mi si rende necessario dover tornare ad Asgard per aprire porte magiche a conoscere i problemi di altri reami solo perché hanno bisogno della mia forza bruta. Lo lascio a chi ha voglia di platinare il gioco. Questo per dire che, nonostante sia imponente sotto ogni comparto, visivo, audio, e fotografico, God of Ragnarök lascerà traccia molto più per la sua storia, e la forza con cui inscena il complicato rapporto padre figlio, rispetto al gioco in sé.

Non dico mi abbia stufato, sarebbe troppo. Ma una volta completata la main quest, non ho trovato nuovi stimoli per affrontare altro. Forse perché le 100 ore e passa spese su Assassin’s Creed Valhalla mi hanno già saziato abbondantemente del boccone norreno.

Nonostante l’arrivo di una nuova arma, la lancia, il combat system non si discosta dal precedente capitolo, anzi, si aggiungono inutili e pomposi orpelli di potenziamenti della cui utilità difficilmente ci accorgeremo una volta sul campo di battaglia. Le sequenze dove quest’ultimo è protagonista risultano eccessive in termini numerici e alla lunga ripetitive, senza un’effettiva utilità ai fini della trama o sulla nostra meta finale.

La gestione della camera alle spalle di Kratos, poi, mi ha mandato più volte fuori di testa. Soprattutto se si decide di agganciare il nemico con R3. La camera ne punta uno e non lo molla. Se volete recuperare dell’energia o altri elementi utili al combattimento dovrete per forza sganciare il nemico, correre altrove e rotolare compulsivamente se no vi arriverà qualcuno alle spalle a darvi il colpo di grazia. Paradossalmente gestita molto meglio nei momenti in cui si controlla Atreus.

Mi sono piaciuti parecchio gli approfondimenti storici, gli intrecci creati ad hoc per posizionare Kratos e suo figlio nella mitologia scandinava e la ricchezza di elementi utili per poterla conoscerla meglio.

Non so dirvi se God Of War Ragnarök sia il gioco dell’anno passato. Sempre di più per me la trama e il racconto giocano un ruolo più che centrale nell’approcciare un titolo videoludico, benché badi spesso alle innovazioni apportate all’ecosistema (e solo per questo mi sentirei di premiare Vampire Survivors), mi sento di premiare maggiormente i primi. Perciò mantenendo i primi come parametri di giudizio essenziali direi assolutamente di sì, con anche lacrimuccia annessa nelle fasi finali del gioco.

Se invece devo soffermarmi a comprendere quale sarà il contributo di questo nuovo capitolo alla storia dei videogiochi, lì ho maggiori perplessità, e mi sento di dire che il suo predecessore abbia fatto molto di più.

Ma se è un’avventura single player da giocarvi con calma la sera, a più riprese, e avere la sensazione di immergervi in un romanzo quella che state cercando…beh, allora God Of War Ragnarök è il titolo che fa per voi.

★★★☆☆

The Last of Us - La serie TV

Le prime note della sigla sono già un brivido che pervade tutti i sensi. La colonna sonora di Santaolalla riaffiora ricordi di entrambi i titoli giocati di The Last Of Us.
Non farò un post per ogni episodio della serie, mi concentrerò sul primo e sull'ultimo di questa stagione, giusto per vedere l'affidabilità e l'adattamento rispetto il videogioco, benché online si leggano soltanto recensioni entusiaste e si parla del miglior mai fatto proveniente da un prodotto videoludico. Tra tutti Rivista Studio:

Soprattutto, la serie arriva in un momento e a un pubblico mai così ricettivi nei confronti di racconti pandemici e apocalissi imminenti (se una cosa la pandemia di Covid-19 l’ha cambiata davvero, è il modo in cui reagiamo a queste storie: fa sempre impressione avvertire dentro di sé il sollievo di chi sa che sarebbe potuta andare come in The Last of Us, chi lo sa. Per fortuna). The Last of Us ha tutto quello che serve, insomma, per essere il primo capitolo di una storia nuova. E, forse, l’inizio di una nuova epoca dell’industria dell’intrattenimento.

Anche se non avete mai giocato a The Last Of Us potete guardare tranquillamente la serie. Dal primo episodio, ma anche per tutti i seguenti, pare si segua pedissequamente quanto creato nel gioco. E non aspettatevi il classico show su zombie e pandemie. È soprattutto una storia tra due sconosciuti, Joel ed Ellie, che finiranno per amarsi come padre e figlia e questo legame avrà la meglio su ogni cosa.

Come vedrete nella prima puntata le regole sociali saltano in pochissimi minuti, da una quotidianità afosa e placida del Texas si piomba nell'inferno più nero di una pandemia portata da una mutazione del fungo Cordyceps, come anticipato 30 anni prima da un epidemiologo in TV. Narrativa prossima più che mai a quanto abbiamo vissuto un paio di anni fa, ma con note di morte e disperazione accentuate all’estremo. Si entra in un mondo governato dalla malattia e dalla legge marziale, dove nessuno lavora, ma tutti cercano di sopravvivere meglio che possono. È il mondo gestito dalla forza militare FEDRA contrastata dalle Luci, un gruppo sovversivo che agisce in nome della libertà e democrazia.

Se il primo episodio dimostra fin da subito un alto livello qualitativo, sia per la scelta della fotografia e degli attori (i due protagonisti arrivano da Il Trono di Spade, ma tranquilli questa volta il finale c’è e non lascerà delusi), The Last Of Us si candida subito dopo poche settimane dall’inizio dell’anno a serie del 2023. Non vedo l’ora di settimana prossima!

Caleidoscopio

Caleidoscopio (Kaleidoscope) è stata la prima mini serie del 2023 apparsa su Netflix. È autoconclusiva, non ci sarà cioè una nuova stagione e forse è anche questo tra le poche cose belle che ci lascia.

La trama è piuttosto basica. Una banda capitanata da Giancarlo Esposito e formata da sedicenti esperti ladri, organizza a NY un colpo al caveau più sicuro al mondo contenente 7 miliardi di dollari in obbligazioni sfruttando l’uragano Sandy del 2012. Basato su una storia vera a quanto pare. Per il protagonista è l’atto finale di una vendetta meditata per anni nei confronti del proprietario del caveau, l’amico che gli ha rovinato la vita.

Ma Caleidoscopio ha fatto parlare di sé non tanto per la trama, quanto per la possibilità lasciata dai registi e produttori di poterla guardare scegliendo l’ordine della visione degli episodi a proprio piacimento non andando ad influire sulla visione d’insieme della produzione.

La sequenza che ci è capitata è stata: Nero, Giallo, Verde, Arancione, Viola, Blu, Rosso, Rosa, Bianco. Ne esistono 40 mila possibili di combinazioni di visione e benché nel tuo cervello tu possa ricostruire abbastanza facilmente la trama senza rovinarti troppo con spoiler e colpi di scena, c’è chi consiglia l’ordine cronologico corretto come dice Il Post: Viola e continuare con Verde, Giallo, Arancione, Blu, Bianco, Rosso, Rosa. Anche se Bianco è pensato per essere l’ultimo, infatti, cronologicamente si colloca prima di Rosso e Rosa.

Tuttavia, guardarlo in un cert’ordine rispetto ad un altro, come dicevo, poco cambia ai fini della comprensione della serie. Quando i titoli di coda scorrono sul finale, saprai tanto dello spettacolo quanto tutti gli altri che lo guardano. Lo avrai semplicemente sperimentato in un modo leggermente diverso.

Il che lascia solo una domanda. Qual è il punto?

La cosa così frustrante di Caleidoscopio è che una volta che hai visto tutto e l'hai riordinato nel tuo cervello, è uno spettacolo piuttosto buono. Non è un dramma di prestigio di livello A, ma è abbastanza assurdo da rimanere divertente. Ma tagliato con l’accetta e scagliatoci addosso a caso, perde qualcosa. Ti affatica e non ne puoi parlare con nessuno perché loro avranno il loro ordine di episodi.

Forse è il modo in cui tutti i personaggi devono essere introdotti in modo molto sottile in ogni episodio perché potrebbe essere il primo che vedi. Forse è quanto sia anticlimatico ogni episodio perché i cliffhanger sono impossibili poiché per la natura del formato non verranno risolti. Forse è perché, nell'attuale finale cronologico, Esposito ha un momento di emozione così potente che tutto ciò che segue - incluso lo stesso finale pianificato - sembra un ripensamento.

Ci sono, insomma, un mucchio di flashback e flashforward lanciati in un frullatore e serviti senza pensare alla soddisfazione narrativa. Dimostra solo che è possibile attuare un approccio a puzzle ad essa, ma non che ci sia una ragione particolare per farlo. Bell’esperimento, non so quanto riuscito.

★★★☆☆

Balloon Museum | Pop Air

Un’esperienza dedicata ai più piccoli. Come tutti del resto.

Written by Andrea Contino since 2009