Threads

In oltre 100 Paesi del mondo arriva oggi Threads, la risposta a Twitter del gruppo Meta, quelli di Facebook, Instagram e Whatsapp per intenderci.

Ecco, se provate a navigare sul link qui sopra e abitate in Italia, o in uno degli altri stati EU, vedrete una scritta e una galassia di sfondo. Perché? Quitrovate una spiegazione dettagliata.

Io avevo un vecchio account per l’App Store USA e ho deciso di iscrivermi perché non so stare senza curiosare tra le novità social.

Qui le mie primissime osservazioni:

  • Al momento non c’è un’interfaccia web. Nel senso che non si può scrivere o interagire, ma soltanto visualizzare i link di post o profili. Peccato, spero rimedino subito, perché passo quasi tutto il mio tempo davanti a una finestra di un browser
  • L’esperienza di iscrizione è facilissima, le credenziali sono quelle di Instagram, da cui si può importare l’immagine profilo e la propria bio
  • Al momento la sola visualizzazione della timeline è algoritmica, con un mix di account seguiti e suggeriti, immagino in base a interessi e passioni. Speriamo a breve in un filtro o più d’uno
  • Non ci sono ancora gli hashtag, ma si possono quotare post e commentare
  • Nel tab dedicato alla ricerca al momento si possono solo ricercare altri utenti, non c’è modo di cercare per parole chiave o topic
  • Il limite di caratteri per post è di 500
  • Al momento in cui sto scrivendo il post siamo a 30 M di utenti, ma penso raggiungeremo i 40 M entro sera. Questo è in assoluto il vantaggio competitivo di Threadsrispetto a tutti gli altri cloni di Twitter. Ovvero ha una base di 1 miliardo di utenti da cui attingere ad oggi senza contare l’Europa e in grado di far iscrivere in meno di 1 minuto. Niente inviti, niente attese. Senza contare che manca ancora tutta l’Europa, anche se con piccoli escamotage ci può iscrivere senza troppa fatica
  • Non ci sono pubblicità al momento. Ed è bellissimo
  • Arriverà a breve l’adesione al protocollo AcitivityPub, quello di Mastodon per intenderci. Questo per permettere a chi ne ha voglia di trasferire tutto il suo storico altrove

Io non so ad oggi se Threads avrà successo o fallirà miseramente cercando di diventare un clone di Twitter ergendosi a paladino delle buone maniere. Tuttavia sembra che il mondo abbia disperato bisogno di una copia più o meno identica di Twitter che dall’avvento dell’era Musk si sta barcamenando tra la sopravvivenza e la trasformazione.

Le altre, papabili, alternative stanno faticando e tanto a trovare un proprio spazio e una propria dimensione, forse perché incapaci di attrarre grandi numeri di iscritti o per scelte strategiche di tenere gli accessi solo su invito.

Nonostante le tante feature che ancora mancano, ma che arriveranno prima o poi nel futuro, il grande track record di stabilità hardware e software, una buona dose di esperienza in moderazione di contenuti, forse consentiranno davvero a Threads di avere successo. Per riuscirci dovrà evitare non tanto di trasformarlo in un clone di Twitter, ma piuttosto di Instagram, dove ormai la situazione è irrecuperabile.

40

Ho scritto davvero poco nell’ultimo periodo. Ho usato tanto Twitter, un po’ per sperimentare, un po’ perché non mi sono preso del tempo per scrivere e quindi ho lurkato interagendo lo stretto necessario. È dovuto soprattutto a una cosa in particolare, che spero di poter raccontare prima o poi. Detto ciò, da martedì scorso sono 40. Io non faccio mai bilanci, non guardo quasi mai indietro, ma provo a guardare quasi sempre avanti.

Ho festeggiato come volevo. Sono anche stato ospite degli amici di RoundTwo e mi sono divertito un sacco.

Sebbene sarebbe perfetto potessi fissare questo momento e far sì che sia così per sempre la mia vita, spesso mi domando se c’è altro. Se cogliendo le giuste occasioni si possa arrivare a fare qualcosa di diverso. Spesso la risposta è sì, è stata sì in passato e spero continuerà ad esserlo in futuro. 🤞🏻

Godete di ogni momento felice, perché non sai mai quando ritornerà.

Apple Vision Pro

Ho rivisto l'annuncio di Apple Vision Pro e guardato qualche video online, soprattutto di chi ha già avuto la fortuna di ricevere 30 min di demo di questo headset ar/vr di Apple.

Innanzi tutto c'è da notare come sia la prima release di un nuovo hardware, come non capitava da tanti anni in Apple. È un computer a tutti gli effetti che non ha necessità di agganciarsi a un altro device per funzionare. E questa mi pare già una gran cosa. Dispone di una connessione WiFi integrata e monta un chip M2.

Come funzionerà?

È il primo headset che non necessità di controller. Tutto viene controllato dagli occhi e dalle mani, senza mai aver bisogno di un ulteriore accessorio. Un po' strano per la storia di Apple (😆), ma effettivamente la prima vera innovazione tecnologica mostrata ieri. 13 sensori montati frontalmente per gestire tutto e tracciare quello che accade attorno a voi, oltre ad altri posizionati all'interno per monitorare il movimento dei vostri occhi. Sembra proprio questo essere la cosa più incredibile dentro la UI, la precisione con cui si viene tracciati e come questo interagisce con il movimento delle mani per selezionare o fare qualsiasi altra azione.

Il vetro che sembra mostrare gli occhi di chi lo sta utilizzando, in realtà non è un vetro trasparente, ma uno schermo oled che mostra quello che avviene all'interno dell'headset attraverso le sue camere interne. È un passthrough mode come negli altri caschetti, che di solito permettono di vedere quello che avviene all'esterno, ma questa volta con la funzionalità contraria anche. Al momento ci sono solo app sviluppate da Apple, come fu per il primo iPhone.

Ci sarà tempo per gli sviluppatori di realizzarne di nuovo, ma per i primi tempi ci sarà da spippolare solo con quelle offerte di default al day one. Tutto gira su un sistema operativo nuovo, proprietario e sviluppato ad hoc, chiamato VisionOS che somiglia per certi versi a iPadOS di cui ricorda le gesture mentre si naviga nel browser ad esempio. Non mi ha convinto nessuno sulla fruizione di contenuti invece. C'è chi cita di poterlo usare su un aereo e godersi un film come se fosse al cinema, ma la batteria in dotazione dura soltanto 2 ore.

C'è chi vorrebbe pagare pur di guardarsi una partita NBA come se fosse a bordo campo...Ma il bello di guardarsi una partita è di farlo insieme a qualcuno quando non si è allo stadio. O almeno io lo sport l'ho sempre vissuto in questo modo... I miei dubbi, nonostante questo pezzo di tecnologia spazzi via molto di quanto visto fino ad ora rispetto a tutto il resto ar/vr, restano su tanti punti:

  • Il prezzo in primis. Vicino ai 4000 eur. quando arriverà da noi viste le conversioni, resta un prezzo molto alto per tanti. Immagino si indebiteranno tante persone pur di averlo, per poi lasciarlo a prendere polvere. Oggettivamente la tecnologia che monta giustifica in parte un costo che non può raggiungere un grande pubblico
  • Le funzionalità e applicazioni, ad oggi o quando uscirà, sono più per il consumer o per il business? Ma soprattutto perché dovrei utilizzarlo quando posso fare tutto allo stesso modo senza dover addossare un headset? E questo punto è stato il fallimento degli altri headset, soprattutto in ambito lavorativo
  • La batteria. 2hr di batteria è poco per un film. Ma è tanto per tenere addosso un caschetto che pesa quasi un 1kg. Se si vuole carica infinita, bisogna attaccarsi con un cavo alla corrente
  • Mi rimane il dubbio sul motion sickness. Al momento non ho trovato nessun feedback su questo aspetto, ma attendo di capirne di più. Ho provato PlayStation VR2 e mi sono sentito male dopo 1 ora abbondante
  • Gaming. Questo è un altro aspetto interessante per me. Ci gireranno un centinaio di giochi Apple Arcade al lancio, ma chissà se sarà terreno fertile per altri sviluppatori in questo senso

La visione futuristica di Apple è uno esercizio di stile tecnologico e di neuroscienza non indifferente. Forse solo Apple sarebbe stata l'unica effettivamente in grado di tirare fuori una tecnologia simile. Ma allo stato attuale delle cose Apple Vision Pro non è un prodotto per le masse, è un prodotto per impallinati, sviluppatori ed early adopter che molto probabilmente se avrà realmente successo, lo avrà nelle sue iterazioni future. Ad oggi resta inaccessibile ai più e senza un vero scopo e uniqueness per poterlo utilizzare con continuità.

Cosa ho imparato dopo 1 mese di Twitter Blue

Ripropongo anche qui quanto scritto su Twitter.

Cosa ho imparato dopo quasi 1 mese di #TwitterBlue?

Piccola premessa, sono iscritto a Twitter dal 2007. L’ho sempre frequentato e, forse per la mia età, l’ho sempre preferito e continuo a preferirlo agli altri contendenti. A inizio Aprile la piattaforma risultava così buggata che ebbi la spunta blu in automatico senza aver pagato. Cosa che ho finito poi per fare per soli fini sperimentali. Da qui le mie riflessioni:

Verified: partiamo dal primo infuocato argomento. Il sistema di spunta blu è sempre stato incasinato. Fin dalla nascita ci siamo ritrovati con persone a cui fu affibbiato senza nessun apparente motivo, dove il criterio stesso di assegnazione è sempre apparso come un po’ casuale. È diventato nel tempo uno strumento di accrescimento dell’ego derivato da uno status di riconoscimento grafico a cui molti ambivano e solo in pochi potevano abbeverarsi. Per cosa poi? Per dire che io sono io? Ora chi ha perduto la spunta blu dichiara guerra a chi “se l’è comprata”, usa estensioni per bloccare chi paga Musk ma viene su Twitter per dichiararlo. In tutta franchezza a me di avere una spunta blu importa meno di niente. E infatti sarebbe la migliore soluzione per Twitter eliminarla del tutto. Ma la vanità umana è una bestia che ha necessità di essere continuamente alimentata. Personalmente non so se andrò avanti con l’abbonamento. Mi spiace solo perdere la possibilità di scrivere post lunghi e poterli editare.

Come ha scritto @mpietropoli in un suo tweet ormai per emergere qui è necessario pagare. In un mese le mie interazioni sono state come quelle agli albori della piattaforma. Idem per le visualizzazioni dei post passate dalle 40/50 alle oltre 1.000 in taluni casi. Non ultimo il numero di follower, aumentato improvvisamente di oltre 20 dopo anni e anni di stagnazione. Altra cosa che ho notato i post lunghi sembrano essere maggiormente apprezzati e probabilmente messi maggiormente in evidenza nella tab Per Te. Tuttavia questo trend si sta invertendo negli ultimi giorni. Dopo un abbaglio iniziale ora i numeri stanno tornando come prima. Ma ormai l'algoritmo è pubblico e se volete capire come funziona basta fare una ricerca.

Nella Tab Per Te ho effettivamente riscontrato di scoprire tweet e account affini alle mie passioni, ma anche tanti altri assurdamente lontani dai miei interessi tipo AI o ChatGPT o Musk ogni due risposte. Utilità rispetto a Seguiti? 5/10.

Il bacio della morte alla piattaforma ancora non è arrivato. Le breaking news, gli avvenimenti e dibattimenti politici avvengono ancora qui, così come tanta vox populi sportiva. Le piattaforme competitor (ho provato http://Post.news, BlueSky, Mastodon) completamente text based ancora non ce l’hanno fatta a soppiantare Twitter e non so mai se ci riusciranno. Perché? Cercano di copiarlo. E perché dovrei andare altrove?

Non ho avuto modo di testare le feature di monetizzazione perché non disponibili in Italia. Non so se potranno mai funzionare e attirare creator o nuovo pubblico. Certo è che ci sono stati più cambiamenti in 5 mesi che in 5 anni su questa piattaforma. Forse è per questo che in tanti ci rimangono.

Non so dire quanto ancora durerà Twitter. Se cambierà nome. Se diventerà per davvero un’applicazione all-in-one in stile WeChat. Mi spiace solo vederlo ridotto così. Certo è che il suo decadimento parte da molto più lontano che da gennaio 2023.

Ha senso pagare per un Social Network?

Dall’1 aprile, quasi fosse uno scherzo, Twitter dismetterà il vecchio metodo utilizzato per verificare i profili e utilizzerà soltanto Twitter Blue. Ovvero chiunque, pagando 7 euro al mese, potrà avere la famosissima spunta blu accanto al suo nome. Ma c’è di più. Giustificando la scelta con la lotta ai bot e allo spam, Musk annuncia che 15 giorni dopo solo i profili verificati e quindi paganti appariranno nella tab “Per Te” di Twitter. Così come solo a quest’ultimi sarà consentito votare sui sondaggi.

Attualmente il sistema di verifica degli account di Twitter segue un rigido protocollo in cui si passava attraverso un sistema di analisi del proprio account, della propria professione e/o ruolo sociale e talvolta con un invio di documenti che comprovassero l’identità. Da quando c’è Twitter Blue è sufficiente pagare e in automatico si è autenticati.

Il che non equivale ad autentici. Chiunque potrebbe utilizzare il mio nome e cognome ad oggi e spacciarsi per me creando un nuovo account a pagamento. Sarebbe sufficiente come ha deciso di fare Meta e come propone Stefania di inviare un documento che comprovi che io sia effettivamente chi dico di essere.

Ad oggi resta un problema insoluto e che presto porterà a grane non da poco.

Tuttavia Twitter resta il mio social di adozione. Quello che utilizzo maggiormente e dove mi sento meglio. Dopo anni di filtri e account accuratamente selezionati so di essere in una bolla di interesse per me irrinunciabile. Non in una echo-chamber, ma in un luogo dove scoprire e interagire con chi condivide i miei stessi interessi ma non necessariamente gli stessi pensieri.

E a pensarci bene dal 2007 sempre gratuitamente. Su Internet nulla è gratuito e quando vi sembra lo sia è pagato da qualcuno o qualcos’altro.

Nonostante i funerali prematuri sul finire del 2022. Nonostante le scelte tragicomiche fatte. Nonostante il calpestare i diritti di colleghi licenziati senza motivo. Nonostante questa calata dall’alto da signore e padrone, Twitter esiste ancora e si sta modificando in qualcosa mai visto prima.

Sta diventando il primo social network sostanzialmente a pagamento dopo quasi 20 anni dalla sua nascita. Un esperimento mai provato prima su una scala di utenti così ampia. È un esperimento interessante.

Da un lato sta dando adito a tanti competitor nel trovare un’alternativa altrettanto efficace. Dall’altra sta ponendo le basi per un social network speriamo privo di pubblicità. Non so ancora se votarmi alla causa, attenderò sicuramente aprile per decidere. La cosa di cui sono sicuro è che le alternative non sono Twitter e non fanno per me. Perciò se proprio dovrò mantenere le cose come stanno ora, sarei anche felice di pagare poco meno di 90 euro l’anno.

Ho provato PlayStation VR2

Domenica sera ho provato finalmente PlayStation VR2. Non ho avuto mai esperienze precedenti di realtà virtuale e la curiosità mi stava uccidendo. Ho chiesto a Marco se gentilmente mi potesse dare l’opportunità di farlo. Non perché meditassi l’acquisto, ma per genuina curiosità di testare una tecnologia che sta vedendo, forse realmente solo ora, il suo momento di crescita verso una sperata maturità.

Ho giocato per 2 ore scarse e qui ci sono le mie impressioni:

  • Ho iniziato con Pistol Whip. E penso non avrei potuto iniziare meglio la mia esperienza. È un rhythm shooter eccezionale che penso esprima al meglio cosa puoi fare con la VR con molta semplicità. Sparare, interagire con l’ambiente e avere un senso di spazio e immersione piuttosto totale
  • Ho proseguito poi con Rez Infinite. Qui il senso di immersione è, se possibile, anche maggiore. Il trailer in 2D non rende assolutamente giustizia a un ambiente 3D dove si fluttua nello spazio con le classiche dinamiche di Rez con l’aggiunta di poter mirare semplicemente con il movimento degli occhi. Qui forse ho avuto la prima percezione di instabilità fisica, nel senso girandomi talvolta di scatto mi pareva di cadere
  • What a bat? è tanto semplice quanto geniale nelle meccaniche. Qui però ho avuto la sensazione che quanto accadesse a schermo non corrispondesse appieno ai miei movimenti, sia in termini di traiettoria sia di forza. Un titolo ottimo per potersi rilassare e far muovere un po’ la mente
  • Siamo passati poi all’artiglieria pesante. Horizon Call of The Mountain VR. Rispetto a tutti gli altri ho avuto la percezione dell’ambiente e dello spazio fisico attorno a me molto bene. La parte di arco e di arrampicata mi ha preso subito e il mio corpo si è adattato bene a tutte le attività senza particolare fatica. Qui Marco mi aveva avvertito avrei potuto iniziare a sentire lo stomaco rivoltarsi. Ma stranamente fin qui tutto bene
  • Le cose sono iniziate a precipitare con Kayak VR: Mirage. Ho scelto la situazione forse peggiore. Mappa Norvegia in piena tempesta con acque agitate. Ho retto forse 10 secondi e dovuto fare un attimo di pausa. Incredibilmente non soffro e non ho mai sofferto di mal di mare. Ma mi sono bastati pochi momenti per dover spegnere subito il gioco
  • E arriviamo al capostipite della motion sickness in VR. Gran Turismo 7. Anche i più avvezzi alla tecnologia mi dicono avere qualche difficoltà nel rimanere sani. Anche io sono crollato dopo due giri, non so se dovuto alla respirazione o a una impostazione sbagliata sulla direzione verso la quale far puntare l’occhio, ma ho iniziato a sentire forte la sensazione di nausea. Ho completato però i due giri del tracciato arrivando 1° e, a differenza del gioco classico, ho sentito di avere una padronanza sulla pista pressoché totale proprio perché riproduce fedelmente la sensazione di essere all’interno di abitacolo, con suoni e distanze perfettamente bilanciate per farti credere di essere lì.

Dopo aver scoperto che esistono poche DEMO a disposizione e poca possibilità di ricevere un rimborso dopo qualche ora di gioco, mi sento di escludere in questo momento l’acquisto di un caschetto PlayStation VR2. In primis per il costo paritetico alla console, in questo momento ancora ingiustificato. In secondo luogo perché non posso sapere come il mio corpo reagirà ad altri giochi in futuro. So che si può allenare e limitare di molto la sensazione di malessere, ma contando la scomodità, il poco spazio che avrei in salotto…tutto propende per ancora svaccarmi sul divano e fare come ho sempre fatto.

The Last Of Us - Season Finale

Queste 9 settimane sono letteralmente volate. E ogni lunedì è stato scandito con l’appuntamento fisso del nuovo episodio di The Last Of Us. Non starò qui a fare il compitino-recensione e a raccontarvi di cosa trovare dentro questi 9 episodi, soprattutto se avete già giocato il gioco.

Quello che posso dirvi è come li ho vissuti io. Qual è il senso che ci ho trovato. La trasposizione televisiva di un videogioco, talmente sopra le righe da spazzare via qualsiasi capacità di storytelling nel mezzo video ludico, ha trovato alcune opportunità, qua e là, per ricordarci che anche nel folle mondo devastato da una pandemia l'amore è possibile e, per estensione, sono possibili vite significative basate su di esso.

La serie (e ovviamente anche il gioco), riflettendoci bene, si basa in effetti sul concetto dell’eterna dualità, con la sua inquadratura della relazione tra Bill e Frank, con la tragedia di Henry e Sam, Joel ed Ellie e il loro rapporto all’inizio complicato e poi così indissolubile, la dualità interiore dell’esser buoni ma all’evenienza anche spietati. Un’inesorabile dualità fatta di perdita e tragedia, con un necessario e sempre presente contraltare romantico per ricordarci cos'è l'amore, qualsiasi tipo di amore. E in questi 9 episodi ne sono stati esplorati molti.

Ma l’amore fa fare anche cose terribili, se viste dalla prospettiva del bene universale dell’umanità. E mi riferisco al finale ovviamente, dove siamo portati a empatizzare con quanto Joel fa con Ellie, mentre se realmente si potesse trovare una cura alla pandemia forse il sacrificio di una singola vita umana sarebbe valsa la perdita.

Questa eccezionale serie, passata per inevitabili processi di sottrazioni rispetto al videogioco, è la prima vera opera in cui non è stato mandato al macero il materiale su cui si basa e setta un nuovo standard qualitativo in merito di trasposizioni da un mezzo notoriamente interattivo e pieno di dettagli a uno passivo in cui andare al sodo è spesso importante per tenere spettatori incollati allo schermo.

Non vedo l’ora della stagione 2, anche se conosco già il finale.

★★★★★

Alexa, aggiungi un appuntamento

E oggi in pausa pranzo, visto che avevo qualche minuto libero a casa, ho provato a fare dei test dopo il racconto di ieri.

Sì, ho un calendario con le partite della Juventus

Sono tornato sull’app di Sonos e ho disinstallato Google Assistant da tutti i dispositivi abilitati. Mi sono soffermato sul logo di Amazon Alexa e ho deciso di darle una chance.

Mosso dal…Stai a vedere che…ho seguito tutti i passaggi, stabilito il mio indirizzo di casa, sincerato che Alexa scandisse bene il mio nome di battesimo, aggiunto Spotify come servizio preferito e…integrato Google Calendar!

Inutile dirvi che Alexa non solo legge ogni appuntamento del mio account Google Workspace, ma mi permette di crearne uno nuovo e di modificare quelli esistenti.

Trovo il tutto particolarmente buffo e assurdo allo stesso tempo.

Hey Google, aggiungi un appuntamento

Non siamo mai stati grandi fan degli assistenti vocali in casa. A parte avviare il timer di Siri per tirare fuori qualcosa dal forno in tempo, non ne abbiamo mai sentito l’esigenza. Per spegnere le luci o chiedere le porte abbiamo sempre preferito muovere i nostri pesanti culi invece di abbandonarci alla pigrizia. Da qualche mese, come scrivevo, sono passato completamente alla suite Google Workspace. Fa quello che deve, risponde bene alle mie esigenze e parla con il mondo esterno nel modo in cui ci si aspetta.

E complice l’arrivo di Sonos Arc nel salotto, ho abbiamo voluto dare una chance all’assistente vocale di Google, avendo praticamente tutta casa in filodiffusione con almeno una cassa Sonos.

Soprattutto in cucina, dove tra una richiesta del meteo per la giornata (chi va in moto mi può capire) e farsi dettare la ricetta per una passata alla zucca, abbiamo pensato fosse arrivato il momento di provare questa mirabolante tecnologia senza dover affidarsi tutte le volte all’uso delle mani.

Sonos è fenomenale, in cucina abbiamo una fantastica cassa ONE che integra sulla carta perfettamente l’assistente Google, così anche quello di Amazon oppure quello proprietario di Sonos per gestire la musica e basta. Una scelta da fare su questi tre e per ovvie ragioni ho puntato su quello di Google. Nei primi giorni tutto bene, niente di complicato. Poi iniziano i primi segni di cedimento:

Hey Google che tempo fa domani…A Uboldo, via XYZ (VA) il cielo sarà coperto…

Uboldo???

Ho controllato qualsiasi settaggio possibile, sia sull’account personale di Google, sia all’interno del pannello Admin. Controllato online ogni possibile guida. Niente. Google pensa siamo in provincia di Varese. E dici ok.

Due sere fa a cena mi è venuta in mente una cosa importante. Un reminder per la mattina successiva, al ché ho improvvisato un…

Hey Google, ricordami questa cosa per domattina alle ore 7.00…Mi dispiace, ma non ho ancora accesso al tuo calendario, ma continuo ad imparare ogni giorno.

Ma in che senso scusa? E di nuovo via di guide online, ricerca di consigli su forum vari su come risolvere fino a che ho trovato una NON soluzione.

Sostanzialmente se si aggancia un account Google Workspace che ha una lingua diversa dall’Inglese, l’Assistente Google non riesce ad accedere al calendario dell’account. Non lo credevo possibile e invece il thread sulla community ufficiale riporta la questione come attualmente irrisolvibile se non attraverso un intervento di Google stessa. Il problema non è Sonos, il problema non è Assistant, il problema è la lingua diversa da quell’Inglese.

Un’inutile assurdità che già mi ha fatto stancare degli assistenti vocali e fatto pensare a come fino ad ora sia vissuto sostanzialmente benone senza…

Le canzoni saranno sempre lì (?)

Ieri pomeriggio siamo capitati in una rivendita di vinili usati. Sapete, una di quelle situazioni in cui ci sono tante bancarelle diverse in cui le persone vanno a cercare quella chicca da collezione, a iniziarne una, oppure semplicemente a fare i nostalgici di un ritorno a un passato che non c’è più. In realtà ci siamo andati perché uno zio di mia moglie fa mercatini e rivende quel tipo di mercanzia.

Ci raccontava delle varie tipologie di avventori. Tra i tanti casi, più o meno umani, sembrano esserci tanti giovani attratti dal supporto. Tanti in cerca di album perduti, in cerca di un suono diverso…? Non lo so, non ho mai ascoltato il vinile, ma leggevo qui e anche altrove che la sua qualità seppur caldamente artigianale tanto da risvegliare mode, non è migliore rispetto a una cassa di buona qualità attaccata a un servizio streaming.

Mi ha fatto riflettere sulle possibili altre motivazioni. Ancora di più sul momento “fruizione musica”. Ne esiste ancora uno? Esiste un preciso momento in cui dite a voi stessi…oooh fanculo tutti, ora mi metto sul divano e mi sparo un disco dall’inizio alla fine senza rotture di scatole tirando fuori un vinile?

Se è così, vi invidio. Riflettendoci non ne ho mai avuto uno. La musica mi è arrivata sempre in momenti “altri”. In auto, dallo stereo mentre studiavo, dalle casse del computer mentre digitavo i miei primi caratteri, dalle casse Sonos connesse in filodiffusione in casa o non ultimo dalle cuffie collegate allo smartphone.

Ritornando alla prima domanda, cosa cerca chi compra ancora un supporto fisico? È strettamente legato a un momento speciale nella loro vita in cui c’è solo musica e nient’altro. Se si tratta di esperienza d’ascolto più che un effettivo ascolto qualitativo (inteso proprio di bitrate percepito dall’orecchio)?

Chi sa mi risponda 😆. Poi, come ogni volta in cui penso di scrivere qualcosa gli atomi del mondo si connettono e trovo strascichi del mio pensiero altrove. Sull’argomento questo weekend il post di plus1gmt trattava di striscio l’argomento in un passaggio:

Oggi ciascuno di noi ha a disposizione la propria radio personale che, come fanno i liceali con le versioni di latino che rintracciano nelle occasioni in cui ancora qualcuno chiede loro di mettere in pratica le regole di traduzione, evoca secondo un palinsesto il più in linea con i propri gusti. Il rischio è, come saprete, che manchi l’intermediario esperto in grado di ampliare le conoscenze dell’ascoltatore che, abbandonato a sé, finirebbe per non aggiornarsi più. Un rischio che abbiamo accettato di correre, sacrificando il richiamo dell’ignoto alla comodità. Il punto è che nell’abbondanza delle scorte – le piattaforme di streaming contengono qualsiasi rumore emesso dalla totalità degli esseri umani dalla loro comparsa sulla terra – non ci siamo ancora abituati al fatto che le canzoni sono sempre lì. Per questo ci sono ancora individui a metà strada di questo processo di cambiamento, persone che acquistano musica su supporti fisici (ma la stessa cosa vale per i libri o i film o per l’arte o per le cartine geografiche o anche solo le fotografie) per possedere le canzoni. L’equivoco è che la ricchezza consista ancora nella proprietà privata delle cose che ci piacciono per poterne disporne in ogni momento. Da qualche anno ascolto una stazione radio che è molto in linea con i miei gusti. Non ci sono speaker inutili ma è una infinita playlist piena di musica di cui sono in possesso e di altra tutta da scoprire. Non c’è molta differenza tra questo modello e Spotify, ma l’ascolto a sorpresa di un pezzo che amo è un piacere che continua a non avere confronti.

Io ad esempio non potrei fare più a meno di Spotify. Della Discovery Weekly ancora di più che le scoperte casuali tramite playlist di amici o trovate in Rete. L’algoritmo ha raggiunto un certo grado di raffinatezza nei miei confronti per cui non troverei soddisfazione altrimenti. Sono uno a cui piace ascoltare costantemente nuova musica, come per i libri, difficilmente torno ad ascoltare un disco intero per più di qualche manciata di volte. Trovo particolarmente soddisfacente il fatto di sapere di avere a disposizione con pochi click la prossima band che mi farà rinnamorare nuovamente del rock and roll, e questo per me è sostanzialmente irrinunciabile.

Dall’altra tutto questo potrebbe dissolversi nel nulla da un giorno con l’altro. Se domani cessassero di esistere contemporaneamente tutti i servizi di streaming io dovrei ricostruire un decennio di libreria musicale che ho consegnato nelle mani di società private. Uno scambio equo nel quale entrambe le parti godono, ma se una di queste scappa con il bottino l’altra resterebbe a mani vuote. Per la gioia di chi in questi anni ha incasellato quadrati su quadrati nelle proprie librerie in salotto per darsi un tono.

Provo a cambiare prospettiva. Se avessi in questi 10 anni acquistato tutti gli album ascoltati, e attualmente nella mia libreria, credo non avrei potuto permettermi nessun’altra spesa extra se non quella dedicata ai dischi. Ma soprattutto, posso affermare con una certezza quasi assoluta, non avrei mai e poi mai scoperto nuove realtà sonore frequentando soltanto forum e mercatini dell’usato o negozi di dischi. È un fatto. E bene o male la scelta sta nello scommettere su quale supporto lasciare la colonna sonora della propria vita ai posteri.

A voi la scelta.

Written by Andrea Contino since 2009