La vista di Massimo da lì

Complice un relativo lungo viaggio fatto sabato mattina, sono riuscito a leggere tutto d’un fiato “La vista da qui”, il libro di Massimo Mantellini uscito il 30 agosto scorso.Quando ho chiuso la copertina, dopo aver letto l’ultima pagina, mi sono appuntato molte domande. Tanti chissà… La prima, la più immediata, è se gli fosse servito questo periodo di soggiorno a Londra per riflettere con maggior intensità su quanto avviene in Italia, e così poterne scrivere un libro. Poi mi sono risposto da me, sul suo blog ne scrive praticamente ogni giorno, il motivo è stato forse per raggiungere quella metà di italiani che, come scritto nel libro, di stare sulla Rete proprio non gli passa dall’anticamera del cervello.

Le domande, come dicevo, non sono terminate.Mi sono subito immedesimato nel “ mediatore sentimentale” in apertura del capitolo dedicato al copyright. Così come interpretiamo oggi il diritto d’autore quaggiù, ma allo stesso modo negli Stati Uniti, è qualcosa che necessita di una revisione sensata realizzata, soprattutto, da persone in grado di discernere l’ampliamento della conoscenza, dall’atto di pirateria a scopo di lucro. Massimo va al nocciolo della questione. Chi fa le leggi spesso non sa nemmeno di cosa sta parlando e ragiona con schemi non applicabili da media a media.Internet in tutte le sue forme si è da sempre contraddistinto per replicare un modello già esistente nella creazione di cultura da parte dell’essere umano. Trasformare in qualcosa di diverso, migliore o peggiore è a descrizione del singolo, ciò di quanto già esistente. Combinare e fondere esperienze pregresse per ampliare gli orizzonti cognitivi.Chissà cosa ne penserà ora Massimo, dopo aver scritto e pubblicato un libro e annoverandosi di diritto tra quella schiera di persone protette da copyright, se il suo libro dovesse essere copiato o fatto a “pezzi” e ricomposto per diventare “altro” in maniera del tutto free. Conoscendolo un pochino, credo di sapere già la risposta.Tutto il testo, a mio modo di vedere, ruota attorno ad un concetto fondamentale seppur banalissimo, ma di cui una bassa percentuale di persone tiene purtroppo conto. Internet non è un mondo extra-terrestre, non è popolato da un Avatar nella concezione cinematografica del termine. Ci sono persone, ci siamo noi, e ci sono gli stessi medesimi comportamenti vigenti tra umani in carne ed ossa. Esiste solo un’intermediazione in cui non è prevista la presenza tattile. Chi non l’ha ancora compreso, non ha ancora capito di cosa si tratta.Percorre questo fil rouge il capitolo dedicato alla privacy, dove il controllo della identità online è dato da quegli stessi strumenti in grado di amplificarne l’ego e la diffusione. E così come dobbiamo stare attenti a proteggere in un luogo sicuro le chiavi della nostra abitazione dopo averla chiusa adeguatamente, abbiamo tutti gli strumenti in grado di controllare quanto di noi vogliamo mostrare al mondo. L’importante è sempre avere il controllo ed evitare che le “chiavi” finiscano in mani sbagliate o siano facilmente rintracciabili. Chissà cosa avrebbe aggiunto Massimo al capitolo dopo quanto avvenuto nei giorni scorsi sul maggior caso di furto di autoscatti di nudo ai danni di alcune celebrità, per poi essere rese disponibili al grande pubblico.Infine, sapevo Massimo sarebbe ritornato sulla questione supporti vs contenuto. Nel capitolo dedicato ai libri c’è un passaggio in cui mi sono rivisto nel mio essere lettore oggi. Per me il supporto non conta più, non preferisco quello elettronico alla carta e viceversa. Preferisco anche io il contenuto. Per questo ho comprato i 4 volumi delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco sia cartacei che in formato eBook. È la circostanza in cui mi trovo come lettore a fare la differenza e solo questa. Tuttavia siamo ancora “carcerati” dietro legislazioni medievali dove se acquisto un libro cartaceo non posso avere in automatico anche la versione elettronica, sebbene io stia acquistando l’opera di un artista, non il suo supporto.È facile accorgersi di come in questo breve saggio Massimo non racconti di sé stesso, ma piuttosto della finestra affacciata sulla sua personale esperienza dell’Internet (si per me sarà sempre maiuscola) italiana di cui anche lui ha contribuito a crearne un racconto storico attraverso il suo ultra decennale blog. E una vista come la sua, carica di esperienza, ci dice che la verità sta nel mezzo, dove è necessario dotarsi di un occhio universale e non parziale per poterne comprendere le miriadi di sfaccettature. Sia positive che negative.Un mio personalissimo consiglio: leggetelo in tempi brevi. È senz’altro da annoverare tra i volumi della storia dei media, ma fate in fretta, la scelta di un supporto cartaceo impone uno specchio dei tempi correnti molto limitato. Tra non molto quello scritto di Massimo sarà “solo” altra storia.ps. Piccola nota per l’editore minimum fax. Avrei lasciato la pagina bianca subito dopo la fine, come chiesto dall’autore del libro.

Da E’ a È: Italiano e tastiere, una storia complicata.

[embed]https://www.facebook.com/AccademiaCrusca/photos/a.598007076909584/699215906788700/?type=3\[/embed\]Nemmeno poi troppo.Al di là dei consigli utili dell’Accedemia della Crusca pubblicati su Facebook circa l’utilizzo corretto degli accenti, il più delle volte gli errori online, ed in particolare uno, sono causati da una scarsa conoscenza della tastiera.A ragion veduta aggiungerei, visto che per Windows ad esempio c’è la necessità di ricordarsi un codice specifico o una combinazione di tasti.Ripropongo quindi il post di Giovanni in cui spiega come facilmente sostituire il layout della vostra tastiera in modo da poter fare tutte le maiuscole accentate con la semplice combinazione di CAPS LOCK + à, è, ì, ò, ù.

31

Credo di non aver mai scritto per un compleanno qui sul blog. Non mi va nemmeno di andare a cercare nell’archivio. Tant’è mi sentivo di farlo.Avevo salvato l’oroscopo di Internazionale nella settimana del 30 aprile con l’intenzione di postarlo proprio oggi. Qui, pur non credendo minimamente nelle arti divinatorie, ho solo ritrovato uno stato d’animo di questo mio personale momento storico.

Il che non è necessariamente riferito a persone in particolare e nemmeno a situazioni precise. È solo un sentire la profonda voglia di fare spazio a nuove “costruzioni”.Quello passato è stato un anno intenso, forse più di tanti altri perché vissuto con piena consapevolezza di molte cose.Tante sono cambiate restando le stesse, altre identiche mutando solo pelle. 31, una per ogni anno:

  1. È il secondo anno che vivo da solo
  2. Ho amato e mi hanno ricambiato
  3. Ho lottato, ho vinto e ho perso
  4. Vado all’assemblea di condominio
  5. Pago tonnellate di tasse
  6. Mi rispecchio sorridendo con gli scritti de I Trentenni
  7. La bellezza di vivere in un’epoca tecnologica come questa
  8. Con buona pace di “Quelli che…i blog sono morti”
  9. Il tempo non basta mai. Mai, mai, mai
  10. Per questo seguo 5 serie TV, scrivo su due blog, videogioco (verbo) come mai prima, e ho iniziato a leggere tutti i 12 libri de Le cronache del ghiaccio e del fuoco
  11. Ho visto i delfini, davanti la Corsica attraversando il Tirreno
  12. Ho scritto di come poter cambiare il mio Comune prima delle elezioni e da un paio di settimane lo sto facendo supportando il team di comunicazione con la pagina FB e Twitter. La passione, anche di pochi, porta lontano
  13. Da qui, se le cose non inizi a cambiarle tu, nessuno lo farà per te
  14. I miei migliori amici stanno per avere una bimba. Non piangevo di gioia da tanto tanto tempo
  15. Ho appena allargato il layout del blog. Siamo nel 2014, il 1920 dove essere il minimo della risoluzione degli schermi di tutti voi
  16. Al lavoro c’è la magia di sfidare solo una persona. Me stesso. Ci sto riuscendo
  17. Barbalbero e Fabri Fibra hanno ragione da vendere. Quando nessuno sta dalla tua parte non stare dalla parte di nessuno
  18. Non si può controllare ogni singolo aspetto della vita. Nonostante siano ancora i dettagli a fare la differenza
  19. Tutti buoni a fare gli espertoni di calcio solo quando c’è il mondiale
  20. Ok e chi non lo fa?
  21. Le priorità a corto raggio sono le più difficili da gestire. E hanno la capacità di concentrarsi tutte nello stesso momento
  22. Per la prima volta in vita mia ho vinto un concorso
  23. Non sono mai stato a NY prima dei 30 anni. Dopo averli compiuti ci sono andato 3 volte in 4 mesi
  24. Nessuno può uccidere le emoticon
  25. La musica in streaming sarà lo standard del futuro
  26. Avere un ADSL che funziona è solo culo. Solo e soltanto culo
  27. Nessuno è mai troppo giovane o incompetente per non essere considerato
  28. Her. Ho timore a riguardarlo
  29. Queste pagine sono tra le cose a cui tengo di più. Sono me
  30. Grazie mamma. Grazie papà
  31. Non mi importa più del compleanno, è solo un anno in più da aggiungere, un anno in meno da godere

Il Never Give Up di Simone farebbe di tanti posti, un posto migliore:

Il fondamento del “pensare positivo” sembrerebbe essere che a pensare negativamente ci si attiri addosso solo sventure. Ciò mi trova d’accordo. Ma non giustifica il pensare positivamente come soluzione*. Esiste infatti la terza via: pensare e basta. Che nella sua accezione naturale significa vedere il bicchiere e il suo contenuto senza focalizzarsi sul mezzo vuoto ma neppure sul mezzo pieno: è solo un dannato bicchiere.

È il bello e il brutto di navigare a vista. Si vede l’orizzonte, la mappa c’è anche se ancora poco decifrabile.L’importante è non mollare mai.

Wolfenstein: The New Order. ACHTUNG! ACHTUNG!

Quando decisi di recensire Wolfenstein: The New Order mi accorsi immediatamente di due cose.

  • La prima: Non prendevo in mano un puro sparatutto da troppo tempo.
  • La seconda: Le innumerevoli partite giocata a Wolfenstein 3D sul mio 486 oramai oltre 15 anni fa.

Completata l’installazione su Xbox One mi accorgo che proprio quel giorno Xbox Live non funzionava. Volevo provare anche la modalità multiplayer, ma si vede che la provvidenza ha guardato in basso, perché Wolfenstein: The New Order è privo di una modalità a più giocatori.Interpretare e portare sul mercato uno sparatutto figlio di Doom con delle meccaniche vetuste a detta del mercato, è sicuramente un’operazione complicata e forse priva di senno. Tuttavia l’esercizio fatto da Bethesda, e in particolare dagli studi MachineGames, sta a ricordare che c’è un mondo oltre ai ragionati schemi di Call of Duty e che un FPS può ancora essere brutale e fatto di colpi di fucile a pompa invece di quello da cecchino.È e resterà sempre il mio modo di interpretare un buon FPS ed è lo stesso motivo per cui ho smesso di giocare a Call of Duty dopo essere diventato esclusivamente concentrato sulle guerre presenti e future rispetto a quelle del passato.Ad ogni modo, torniamo al buon caro vecchio Wolf.[embed]https://youtu.be/ypItH0U5qz4\[/embed\]Vestiamo i panni del soldato americano William “B.J.” Blazkowicz in uno scenario fantapolitico in cui i Nazisti hanno vinto la guerra appropriandosi di tutte le conoscenze del mondo anglofono ed europeo ostile. Dal 1946 dove rimaniamo per poche sessioni di gioco, l’azione si trasferisce negli anni ’60, ci siamo beccati una scheggia in testa e soffriamo di allucinazioni.Dalla Polonia in cui siamo stato deportati, sarà nostro compito riassestare le fila di una resistenza ormai morente e liberare il mondo dall’assedio tedesco. Tutto sommato il lavoro fatto sulla trama non è da disprezzare, anche se non incapperete mai in scene particolarmente mozzafiato o da tenervi incollati sulla sedia. Tuttavia è stato fatto un buon lavoro sul design dei personaggi in grado di garantire il coinvolgimento necessario per progredire nella storia.A tal proposito va fatta menzione di un doppiaggio italiano perfetto, sia del narrato sia del parlato, in grado di immergerci ancora di più negli accadimenti e nell’intreccio.

Spara, spara e sparaancora!

Nei 16 capitoli e nelle quasi 15 ore di gioco vi accorgerete come tutto si svolga attorno alle armi. William è in grado di portare con se un vero e proprio arsenale, di armi se ne possono impugnare 2 per ogni tipo e grazie ai potenziamenti dei 4 talenti del personaggio, saremo dei soldati con abilità sempre migliori man mano che si superano i vari livelli.Non mancano le chicche provenienti dai precedenti capitoli, Wolfenstein 3D su tutti (perché immagino abbiate giocato solo quello). Sono presenti i punti “armor”, punti che consentono di migliorare la resistenza alle pallottole, così come dovremmo fare ricorso spesso ai kit medicinali o al cibo per poter ristabilire il nostro livello di salute. Quest’ultimo si rigenera fino a 20 punti se si trova un riparo nelle vicinanze, ma è fondamentale trovare rifornimenti per poter ristabilire il 100% e oltre.La cosa fastidiosa è che al termine di ogni sessione di sparatoria, per poter raccogliere tutto quello presente in terra o su scaffali, è necessario premere ripetutamente lo stesso tasto.

Tecnicamente parlando

Il lavoro sul level design è magistrale, la potenza delle console di nuova generazione viene sfruttata a dovere e in alcuni casi si ammirano scenari molto curati. Il frame rate è molto solido, non scende mai sotto i 60, garantendo una pulizia d’azione come pochi altri del genere.La cosa che mi ha leggermente infastidito è la gestione della mira, quindi lo stick analogico destro per intenderci. I movimenti di quest’ultimo risultano un po’ troppe volte a scatti, portando la mira ad una distanza, seppur breve, lontana rispetto alla mira voluta. Mancando così il colpo talune volte. Pur conoscendo bene il punto debole di un puntamento da pad rispetto ad un mouse si poteva fare un lavoro migliore da questo punto di vista.L’AI è un altro degli aspetti migliorabili dal mio punto di vista. I nemici sono poco vari e si mostrano davanti ai nostri occhi sempre sotto la stessa forma: Soldati, Robot o cani vogliosi di sangue.

Chicche!

Per chi è appassionato della serie sa bene che Wolfenstein è sempre stato pieno di chicche nascoste lasciate al giocatore per essere scoperte. Anche in questo capitolo vi troverete di fronte a porte chiuse che necessitano di combinazioni per essere aperte o alcune volte è sufficiente utilizzare il coltello. Al loro interno una serie di collezionabili vi permetterà ad esempio di attivare nuove modalità di gioco.E, se cercate bene dentro il quartier generale della Resistenza, potrete giocare l’indimenticato Wolfenstein 3D!Polygon, per l’occasione del lancio del nuovo capitolo della serie ha riavvolto un po’ i nastri della Storia e ha prodotto questo video partendo dalla genesi di Wolfenstein, fino ai giorni nostri:[embed]https://youtu.be/3SKK74gDUDw\[/embed\]**Wolfeinstein: The New Order si dimostra capace di soddisfare i malinconici di un certo tipo di FPS ormai superato e forse del tutto defunto con i vari Doom, Serious Sam molti altri. Per contro dimostra come sia possibile soverchiare dinamiche ormai consolidate riportando in auge quelle dimenticate per migliorarle e poter rendere godibile ancora uno sparattutto violento e sanguinolento.**Seppur superficiale in alcuni aspetti, come AI e alcuni controlli, lascia il buon retrogusto di qualcosa di antico in grado di trovare il giusto posto in un mondo di headshot!

Medium? Qualche volta. La blogosfera non è più personale

Lei — il film

Arrivo tardi, forse troppo, complice l’assenza di Internet a casa a parlare di Lei/Her il film di Spike Jonze uscito il 13 marzo qui in Italia. Devo ammettere di aver avuto tantissime aspettative fin da quando l’anno passato ho visto il primo trailer apparire in Rete.Lei/Her è il racconto di un uomo solo, non solitario, ma un nerd molto simile a Leonard Hofstadter di “The Big Bang Theory”. Un mix di nerdismo e dolcezza con l’incapacità di ricucire i cocci del proprio cuore spezzato da un matrimonio fallito alle spalle.Un blocco troppo grande da poter gestire in un rapporto con una persona fisica. Allora il protagonista, Theodore, decide di avvicinarsi ad un nuovo prodotto tecnologico in una Los Angeles futuristica. Ue sistema operativo, un’intelligenza artificiale in grado di apprendere e interagire con lui come se fosse una persona vera avendo esperienza del mondo attraverso la telecamera del suo smartphone e un’auricolare dal design minimalista all’orecchio.Purtroppo ho visto la versione italiana del film, mentre nella versione originale la voce di Samantha, il nome dell’AI scelto da Theodore, è interpretata dalla sensuale Scarlett Johansson.[embed]https://youtu.be/pHSPor3VZ9E\[/embed\]Ci troviamo di fronte insomma una Los Angeles dove le macchine non hanno preso il sopravvento come in Terminator, ma si sono integrate per migliorare la vita dell’uomo non solo a livello funzionale e di commodity. Sono tasselli necessari per sopravvivere.Lei fa riflettere tanto sulla condizione di solitudine degli uomini di questo secolo, focalizzandosi non tanto sulla pericolosità di cosa potrà essere la tecnologia tra qualche decennio, quanto la pericolosa deriva dello smettere di avere rapporti profondi con una persona in carne ed ossa.Tuttavia la tecnologia potrebbe esserne essa stessa sia la risposta che la concausa, ciò non toglie il nostro bisogno primordiale di condivere con un altro essere umano questa pazzia chiamata amore.Ho letto tanti spunti e opinioni diverse sul film, cercando di trovare più interpretazioni che recensioni che non si limitassero a ribadire la banalità: è un film che racconta il rapporto tra un uomo e un’intelligenza artificiale. Ero interessato a comprenderne i significati intrinsechi. Un paio in particolare mi hanno colpito. Entrambi si focalizzano su il pensiero di Samantha non tanto come sistema operativo diventato un partner con cui condividere una vita, ma piuttosto uno specchio che in modo speculare indirizza i bisogni di Theodore. Il primo su Medium:

Samantha is Theodore’s reflection, a true mirror. […] She becomes needy in ways that Theodore is loath to address because he has no idea what to do about them. They are, in fact, his own needs. The software gives a voice to Theodore’s unconscious. His inability to converse with it is his return to an earlier point of departure for the emotional island he created during the decline of his marriage.

Mi sono trovato subito d’accordo. La voce di Samantha dà forma e trova la rapida risposta alla deriva emozionale nella quale è finito il protagonista. Allo stesso modo il secondo articolo trovato sull’argomento:

The voice of Samantha, the operating system, performed by Scarlett Johansson, sound very, very much like a real person. On the other hand, her role has, in the beginning, an appropriate ring of ingratiation: Samantha has been designed to anticipate the needs (technical, psychological, and emotional) of her user. Samantha giggles at Theodore’s jokes while making herself useful by sorting his email.

Purtroppo non ricordo le parole precise del film italiano, ma all’inizio del film il protagonista dice queste parole:

Sometimes I think I have felt everything I’m ever gonna feel. And from here on out, I’m not gonna feel anything new. Just lesser versions of what I’ve already felt.

Qui mi sono un attimo paralizzato sulla poltrona del cinema. Una frase spesso ripetuta più volte nel mio cervello e adesso riproposta sul grande schermo. Una percezione aumentata di se stessi piuttosto che un malessere. Un’analisi molto precisa e accurata di Jonze rispetto alla disperata ricerca di qualcosa in grado di stupirci ancora. Ancora una volta la tecnologia nella sua doppia natura distruttrice e risolutrice.Il regista fa un percorso molto ampio per permettere a Theodore di comprendere che non esiste macchina più complessa di quella umana e che i suoi bisogni, speranze e desideri sarebbero stati compresi soltanto da qualcuno in carne ed ossa.Non ho apprezzato molto la chiusura affrettata e l’eliminazione dell’intelligenza artificiale Samantha in stile The Matrix con un ritorno a una città delle macchine. Ho invece molto apprezzato il girato della scena finale con i frame conclusivi di due corpi umani così vicini e così lontani, ma i soli a potersi dar pace vicendevolmente.

In Lei/Her ci sono anche tante altre cose molto belle e curate. A partire dal design futuristico, ma soprattutto minimalista in grado di trasmettere un ampio senso di pace e tranquillità, tratteggiando i contorni di una Los Angeles senza auto, ma piuttosto vivibile soltanto con mezzi pubblici e i propri piedi.Qui la mappa interattiva delle location utilizzate.La fotografia e la scelta di colori pastello, il rosso su tutti, rende l’atmosfera del film sempre molto simmetrica ed equilibrata. Predominante la sobrietà e la voglia di semplificare.A questo proposito vi consiglio la lettura su The Verge dello studio grafico dietro il sistema operativo e come sono state scelte le location del film, ovviamente su LA Times.E ultima, ma non ultima la colonna sonora curata interamente dagli Arcade Fire. Qui da ascoltare nella sua interezza.Da Lei/Her è stato tratto anche un piccolo progetto collaterale all’interno della raccolta “The Creators Project” un’iniziativa di Storytelling tra Intel (non nuova a cose del genere) e Vice Magazine.Un breve girato nel quale è stato chiesto ad attori e creativi di dare la loro definizione di Amore nei tempi nei quali stiamo vivendo. Il risultato è il seguente e merita di essere visto.Un ultimo tassello a rimarcare il messaggio più cristallino di tutti di questo film. Condividere un sentimento, sia esso con altri umani o con una macchina (qui uno spunto filosofico del Times), è una cosa potente e il più delle volte incontrollabile. Ed è bellissimo.

Noi stessi, anonimi

A marzo scorso parlavo di come online ci identifichiamo per ciò che condividiamo, tema ripreso anche da Luca poco tempo dopo, affermando come fosse l’anonimato a renderci davvero liberi di esprimere la vera natura delle nostre idee.Tra le rispose ai commenti avevo aggiunto:

Il concetto è semplice, l’app accede alla tua lista contatti, da qui in maniera totalmente anonima viene chiesto di condividere qualsiasi pensiero ci passi per la testa in maniera totalmente anonima. Il network di contatti, dopo un limite iniziale a quelli personali, inizierà ad espandersi.L’idea alla base di tutto: una volta “divorziato” dalla propria identità, si dovrebbe essere maggiormente propensi e aperti a condividere qualsiasi cosa. Eliminando le inibizioni a condividere così ciò che realmente si pensa.App del genere ne esistono già, ma Secret premia però il pensiero e i commenti condivisi piuttosto che l’utente ad aver lanciato il thread.Tra le news tecnologiche di questa mattina leggo di una nuova applicazione per iOS in rapida crescita in termini di utilizzo negli Stati Uniti: Secret.Il concetto è semplice, l’app accede alla tua lista contatti, da qui in maniera totalmente anonima viene chiesto di condividere qualsiasi pensiero ci passi per la testa in maniera totalmente anonima. Il network di contatti, dopo un limite iniziale a quelli personali, inizierà ad espandersi.Sono curioso di provarla quando arriverà qui in Italia, se mai ci arriverà. Mi interessa capire se l’anonimato facilita contenuti maggiormente stimolanti perché privi di quel senso di giudizio che spesso ci blocca dal postare sui social network attuali. Oppure si limiterà ad essere un ricettacolo di troll.Ad ogni modo come dice MG Siegler, i social network si stanno specializzando, frastagliando in tante piccole realtà in grado di fare meglio di qualunque altro quel particolare servizio. Facebook non basta più, oppure è troppo perché fa poco di tutto. Dal calderone con dentro qualsiasi cosa abbiamo bisogno del piatto di qualità sempre più spesso.…E infatti qualche ora dopo, arriva la notizia di un possibile anonimato anche su Facebook…

Com’era quel detto sui lupi?

Perdono il pelo, ma non il vizio. Perché la droga in grado di dare più assuefazione di tutte sono i soldi e smettere di averne, farne e produrne è un’equazione impossibile per il lupo di Wall Street.Probabilmente questa è la migliore interpretazione di Leonardo di Caprio di sempre. Pur essendomi forse perduto soltanto The Beach trai suoi film, posso dire che l’intensità e la perfetta immersione nel personaggio fanno di The Wolf of Wall Street uno dei suoi masterpiece.La mano del regista c’è e si fa sentire. Probabilmente aiutato anche dalla biografia di Jordan Belfort stesso, la trasposizione cinematografica si adatta a tanti dei protagonisti precedenti di Martin Scorsese. Nessun riscatto, nessuna rivalsa. La vita vera e non il grande sogno del Cinema contemporaneo. Un protagonista che agisce per fare ciò che ama, non per seguire una morale o una rivalsa sociale.

Lo sguardo fisso in camera come Toro Scatenato, Di Caprio dipinge la circolarità del film, e in questo caso anche della vita del personaggio che interpreta, ritornando al punto di partenza. La gente comune a cui insegnare quelle stesse tecniche di vendita che lo hanno condotto in prigione.Ma si sa, alla vita non manca certo il sarcasmo. Dopo che un farabutto vendeva spazzatura alla gente comune, dopo esser stato beccato con le mani nella marmellata con un fatturato di oltre il miliardo di dollari a fine anni ’90, dopo essersi fatto qualche anno di carcere per aver collaborato con la giustizia, sarei proprio curioso di sapere dopo il libro e il film (di cui spero abbia preteso parte dei ricavi) se è tornato a navigare nell’oro il nostro Jordan.Tornando al film, non aspettatevi un novello Gordon Gekko, di finanza ne troverete ben poca. Droga a profusione, baccanali e un tripudio di continue esagerazioni condite da scene di sesso fintissime. I soldi sono il motore di tutto, l’apri porta di qualsiasi cosa, il pavimento in grado di far raggiungere qualsiasi meta. E il sogno americano del self made man si infrange contro la normalità delle cose. Come un viaggio in metropolitana anche se si è agenti dell’FBI.Per i più attenti. Qualche chicca dagli effetti speciali:[embed]https://vimeo.com/83523133\[/embed\]Non lascia dentro niente, non c’è una morale in questo film, ma ve ne consiglio la visione. Anche solo per assistere a delle ottime interpretazioni. Citazione speciale per Jonah Hill. Il coetaneo protagonista di SuperBad (tra l’altro sembra aver guadagnato un becco di un quattrino) diventato ormai veramente un attore completo.Un grazie personale a Scorsese per non aver messo in scena i tipici stereotipi degli italiani nel mondo:[embed]https://youtu.be/XyduML3SNfo\[/embed]

Sul crescere da videogiocatore

Questo è un post che meriterebbe di stare, per argomento, su Fuorigio.co. Tuttavia, mentre lo scrivevo, è stato in grado di far riaffiorare ricordi ed emozioni da farmi decidere di pubblicarlo qui.Questo è un post per chi come me è cresciuto sulla coda degli anni 80 e ha fatto tesoro di quanto Amiga, Commodore, Atari, Capcom, SEGA e Nintendo ci hanno lasciato e fatto diventare.Lo spunto arriva da Sean Smith, un ragazzo di Atlanta, blogger e creativo di 22 anni. Una riflessione nella sostanza nemmeno troppo profonda, ma molto sincera e sentita.Come i videogiochi, averci giocato, averli affrontati con le giuste spiegazioni, averli compresi con il giusto discernimento tra finzione e realtà gli abbiano, o meglio ci abbiano, consentito di affrontare la vita, soprattutto quella lavorativa, con uno schema mentale differente.Ma soprattutto, ringraziare questo processo di apprendimento “parallelo” per averci fatto diventare ciò che siamo oggi. Così come Sean, difficilmente potrei immaginare ciò che sono in grado di fare oggi senza aver avuto la compagnia di un computer dall’età di 5 anni.E questo non significa esser cresciuto dentro quattro mura, all’oscuro dal mondo e dalla spensieratezza dell’infanzia. Come tutti anche io ritornavo con i vestiti sporchi di fango per aver giocato a calcio tutto il pomeriggio, con la tirata d’orecchie per essere rincasato dopo il tramonto.Tuttavia, gran parte del mio tempo lo dedicavo ai videogiochi, lo trovavo in qualsiasi modo, lo creavo invitando a casa mia gli amici, escogitavo il modo di fare pause tra uno studio e l’altro per superare i livelli, scappavo in mansarda ad ammirare un po’ stranito quell’aggeggio bianco con sopra la scritta Amiga 500 non sapendo bene come animarlo.Anche se la cosa che più mi ha avvicinato a questo mondo è stata l’area cabinati al bar dei miei genitori nel 1990. Provate ad immaginare un ragazzino di 7 anni con 7 cabinati, 1 flipper e l’accesso diretto alle monete da 500 lire nella cassa del bar. Dopo pochi mesi sapevo ogni trucco di Hammerin’ Harry, ho rischiato più volte di prendere botte da ragazzi 30enni che puntualmente stracciavo a Street Fighter con Blanka. Da qui in avanti è stata un’escalation: amavo Sonic alla follia, odiavo Super Mario con tutte le mie forze, ho bruciato la cartuccia di Rygar sul mio Atari Lynx, giocai e mi innamorai perdutamente nella primavera del ’99 a Metal Gear Solid. Il resto è storia recente.Tutto ciò ha influito solo positivamente sul mio modo d’essere e sulla velocità con la quale apprendevo le cose e il mondo che mi circondava. Da qualsiasi gioco sul quale posassi le mie mani sapevo di potermi portare via qualcosa, in modo totalmente inconscio, ma lo sapevo. Così come sapevo che si trattava di finzione, di una realtà altra dove vigevano regole differenti alle quali potevo prendere parte, ma solo per un tempo limitato. Tuttavia c’erano delle esperienze, delle meccaniche intrinseche al mezzo, fondamentali per la mia crescita.

Le innumerevoli partite in doppio a FIFA ’97 con il mio amico fraterno Alessandro. Una squadra debole a caso, il Cagliari, e via a farsi tutto il campionato solo per il gusto di comprendere come ragionasse l’intelligenza artificiale del gioco e vincere impegnandosi al massimo, adattando soluzioni differenti a seconda della partita, dell’azione, del momento. Dai primi sparatutto come Doom o Quake ho conservato il senso di immediatezza, la richiesta costante di una soluzione rapida altrimenti in ballo c’era la sopravvivenza stessa e il proseguo del gioco. La capacità di prevedere l’imprevisto dietro l’angolo grazie al primo Need for Speed Hot Pursuit su PC.O ancora l’impagabile esperienza avuta lo stesso anno della mia prima connessione ADSL circa 12 anni fa. Dapprima con Ultima Online sul computer, ma soprattutto da quando ho potuto collegare la mia Xbox ad Xbox Live iniziando a condividere esperienze, cultura, linguaggi con persone dall’altro capo della terra. I muri della mia stanza d’un tratto non esistevano più e il condividere la mia passione più fervida con il globo terraqueo mi sembrava la cosa più incredibile di sempre. Non era soltanto uno scambio di opinioni e di vedute, era una condivisione di talenti. Ricordo ancora mio papà a cena domandarmi con chi avessi parlato tutto il pomeriggio, pensando fossi impazzito e avessi iniziato a parlare da solo. Mentre ero connesso con il mondo.Schemi mentali, lavoro di team, molteplici soluzioni in momenti di altissimo stress, capacità di previsione, comprensione dell’ambiente circostante e conseguente adattamento, determinazione a raggiungere un obiettivo, lasciare da parte la gloria personale per potare avanti quella della squadra. Tutti concetti assimilabili dai libri o dall’esperienza. La mia, così come quella di tanti altri videogiocatori, è iniziata parecchio prima di molti coetanei.Ci potrei scrivere un libro su tutte le volte che venivo beccato a passare un livello di Halo invece di studiare per l’esame di Macroeconomia all’Università. Anche se devo essere sincero, ad oggi è stato molto più utile così. Per chi sono oggi e per la mia carriera.Immagino che come me e Sean in tanti abbiano oggi questo sentore, ma anche se così non fosse, se vi capitasse di tanto in tanto di sentire qualcuno esclamare:

…i videogiochi sono adatti solo a chi non ha voglia di fare molto nella vita, trasformano i ragazzini in bestie in grado di compiere stragi pluriomicida perché passano troppo tempo a giocare a GTA, i videogiochi trasformano le persone in ameba asociali…

Ecco.Tutte cazzate. Se avete dei figli, non fategli perdere questa opportunità, guidateli nel modo giusto e tra qualche anno ne vedrete i frutti. Passo e chiudo.

Ventiquattordici

Proprio come l’anno passato, anche quest’anno ho chiuso il mese riportando alla ribalta il tema dei blog e della loro, apparente, prematura scomparsa secondo l’opinione di qualche socalled guru del Web.Ieri si aggiunge Dave Winer, uno che di blog se ne intende:

It’s important to feel free to tell your story even if it cues up other people’s permission to be jerks. Oh this person is showing vulnerability. Let’s make her pay! I get it all the time. I’ve been getting it since I started blogging in 1994. I still do it, because it’s what I do. I couldn’t stop, even though I’ve tried, any more than I could stop breathing.

Immancabile, inoltre, il suggerimento musicale di questi 365 giorni lasciati alle spalle e gli album meritevoli di ascolto. I primi due, visti anche in concerto.Il primo è senz’altro AM degli Arctic Monkeys. Sicuramente dal mio punto di vista il loro miglior lavoro, maturità raggiunta, alternative rock quasi del tutto abbandonato per sonorità meno veloci, prediligendo una chitarra dolce e allo stesso tempo potente. Forte l’influenza di Josh Homme dei Queens of The Stone Age. Miglior album rock dell’anno. Da avere!Il secondo è in realtà un album del 2012, scoperto tuttavia nel 2013 inoltrato. Si tratta del primo, ed omonimo album, di Jake Bugg. Giovane artista inglese con sonorità in grado di mixare il folk con il rock. Uno stile diverso da Langhorne Slim, ma che tanto mi riconduce a quella band. Profondo e sincero, un bravo autore molto tecnico. Trovate ora anche il secondo disco uscito da poco prodotto nientemeno che da Rick Rubin.Il terzo ed ultimo, non in ordine di importanza è l’ultima fatica di Paul McCartney, New. Dopo i Beatles non ho mai ascoltato nessun altro lavoro del Sir, ma Spotify me l’ha suggerito come affine ai miei gusti. Devo ammettere, seppur vicino alle sonorità che lo hanno reso famoso, Paul aggiunge un pizzico della migliore verve rock indie. Innovatore, senza perdere se stesso. Merita un ascolto.Gli auguri, come sapete, per me portano male, perciò non smettete di sognare in questo ventiquattordici.

Written by Andrea Contino since 2009