Spazi pubblici vs privati

I dettagli scontati

L’organizzazione di un evento, qualsiasi esso sia, è come diventare direttore d’orchestra.Non solo devi avere la capacità di far suonare all’unisono tutti gli elementi coinvolti, ma devi avere “l’orecchio” per interpretare immediatamente se qualcuno stecca, se qualcuno va troppo veloce o rallenta.Il più delle volte chi non fa parte dell’organizzazione, o non conosce ciò di cui ti stai occupando è il primo a fare due cose:

  • giudicare
  • voler metterci bocca

La fatica è far comprendere il nascosto, l’attenzione anche al minimo dettaglio è essenziale. E la maggior parte di quei dettagli sono invisibili, scontati agli occhi di chi vi partecipa. Ma senza di essi, gli eventi, non sarebbero gli stessi, o sarebbero ricordati quasi essenzialmente per gli aspetti negativi di cosa non ha funzionato.Ormai gli standard settati sono molto elevati e le aspettative anche. Per questo motivo è sempre più difficile stupire e lasciare un ricordo.Instillarlo nei partecipanti è tanto complesso quanto la riuscita dell’evento stesso.È un po’ come un grande piatto preparato da uno chef. Che sia stellato o meno il preparativo richiede ingredienti di qualità che combinati insieme possono essere discretamente normali, ma se trattati diversamente dal solito possono creare un successo inatteso.Per le papille gustative dell’ospite è giubilo, senza dover conoscere necessariamente la lista della spesa, per chi sta dietro le quinte la capacità di potersi ripetere e innalzare costantemente la qualità.Benché inimmaginabili ai più, metter a fattor comune la fatica, la complessità, l’empatia necessarie, tirando fuori il meglio da tutti, rimane per me il solo metro di misura del successo.Tutte il resto, per la maggior parte incontrollabile, non può rientrare nel conteggio.

Social detox

Oltre la foresta nera

Ieri mi sono imbattuto in questo interessante post e conseguente teoria. Su come l’Internet sia profondamente cambiato e per chi, come me, c’è dall’inizio delle prime interazioni online determinate da piattaforme sia complicato ritrovare se stessi in una dimensione ormai impazzita.

When I used the internet as an actual adolescent in the 1990s and as a young adult in the 2000s, this wasn’t the case. I blogged everyday. Message boards were how I learned to test theories and debate ideas. These communities were small enough that people knew each other, but big enough that there was diversity of opinion and conversation. You could vehemently disagree with someone about politics in one thread while agreeing just as passionately with them about movie sequels in another.

I had no problem being myself online then. But now it feels different.

A lot of this difference is on me. I’m older. I have more at stake. But it’s not just me that changed. The internet did too. The internet went from a venue for low stakes experimentation to the place with some of the highest stakes of all. With the rise of online bullying,, and even, the internet became emotionally, reputationally, and physically dangerous. It became the dark forest. Our digital selves became evidence that could and would be used against us. To keep safe we exercised our right to stay silent and moved underground.

Internet è diventata una foresta nera, complicata da discernere e comprendere, difficile, per chi la abita, districarsi ed essere sé stessi.Un tema a me assai caro. E diretta conseguenza dell’avvento sei social network, dove l’apparire conta più dell’essere. Ed essere sé stessi diventa una faccenda tremendamente complessa. Io ho adottato una soluzione simile a chi ha scritto il post.Scrivere quotidianamente, sul blog, per me è una medicina fenomenale per essere sempre di più e apparire sempre di meno.

There’s tremendous value in coming into yourself as a person. Why wouldn’t that be true online, too? Recognizing that my online self was lacking, I made a commitment to learn how to be myself on the internet.

I started with a simple exercise. For one week, I would tweet twice a day. (Normally I tweet about once a month.) I wouldn’t try to impress or be cool. I would try to be real and share what was actually on my mind.

The next step in my digital self-acceptance was to try sharing my dark forest self with the larger internet. After sending my last email about the dark forest, I posted it on Medium. I wasn’t expecting a response, but the piece blew up. In the last two weeks, more than 100,000 people read it around the world.

The dark forest theory struck a chord. And it’s no wonder: many of us struggle to be ourselves online. We’re wary of showing who we really are outside our dark forests. But we’re also learning there are trade-offs. Our dark forests can become black domains with little connection or influence on the outside world.

E Stadia Fu

Finalmente alle porte dell’E3 2019, Google risponde a parecchie domande sortemi dopo l’annuncio di Stadia dello scorso 20 marzo.

  • Il costo del servizio è variabile e alquanto confuso sui contenuti offerti. Il che lascia spazio a molte altre domande. Al momento i tagli sono due Stadia Pro a un prezzo mensile di 9,99 € il quale sembra dare accesso a una serie di giochi gratuiti sullo stile di Game Pass di Xbox. Stadia Base invece permette di accedere gratuitamente alla piattaforma, ma è necessario acquistare singolarmente i giochi.
  • La domanda spontanea è: nel primo tier si ha accesso a tutta la libreria o solo a una selezione di giochi e poi sarà comunque necessario acquistare titoli AAA?
  • Specifiche di connessione. L’infografica di seguito è molto esplicita. E per gran parte dell’Italia sarà un bel bagno di sangue.

Google Stadia

Ieri pomeriggio durante le battute iniziali della GDC 2019, Google tira fuori dal cilindro Stadia. Unisce i puntini dei tanti servizi, ma soprattutto infrastrutture, ad oggi messe a disposizione del mercato consumer e non, e li mette al servizio di un concetto di gaming sicuramente non rivoluzionario (OnLive, Project xCloud e PS Now), ma che al momento non ha ancora visto una sua forma compiuta: sfruttare la potenza di un hardware remoto e l’ampiezza di banda della Rete attraverso il cloud per raggiungere qualsiasi gamer in qualsiasi luogo del mondo purché davanti ad uno schermo connesso, un pad in mano, ma soprattutto una connessione decente.Quindi non davvero dappertutto. [youtube https://www.youtube.com/watch?v=vsaenNSjclY?feature=oembed]

Le premesse e i mezzi tecnici teoricamente ci sono tutti. E al di là un naming decisamente discutibile, Google attua almeno a livello concettuale, mostrato con pochi secondi di demo pad alla mano, il sogno di ogni gamer, liberarsi dalla “schiavitù” della precoce obsolescenza di una componente PC o console e pensare solo e unicamente a giocare.Interrompendo su uno schermo e riprendendo a giocare nell’esatto punto su un altro. Il tutto accessibile tramite un link. Un link per condividere un salvataggio, un link per farsi raggiungere online da un amico, un link per guardare il gameplay di uno YouTuber e iniziare a giocare proprio da quel punto preciso. Non inventa nulla di nuovo Google, i checkpoint in un gioco e i salvataggi esistono da una vita, caratterizzarli come ipertesto raggiungibile in qualsiasi frangente è il vero punto di forza innovativo.Una logica stuzzicante. Tutto deve essere condiviso. Ora e subito. In puro stile YouTube, tanto che il controller pensato da Google, il vero e unico hardware presentato oggi ma con un design già vecchio e troppo simile a quello PlayStation, avrà integrato sia un bottone per lo sharing istantaneo di un frame o di un video di quanto giocato, ma anche un altro per richiamare Google Assistant e farsi aiutare a superare un punto particolarmente difficoltoso all’interno di un videogioco. Un pad wireless ha un più alto “secondaggio” di latenza rispetto a un pad con filo, e questo giocherà un ruolo ancora più importante in un servizio del genere.L’hardware remoto powered by AMD promette di essere più potente più di PS4 Pro e Xbox One messe insieme. Permettendo di giocare in 4K e a 60 fps con già in programma di arrivare a 8K e 120 fps in una seconda fase, salvo ovviamente che si abbia una connessione decente, altrimenti il gioco sarà scalato a 720p. Sebbene non ci fossero titoli degni di nota e comunque già visti sulle console dei competitor, Google oltre ad aver annunciato l’apertura di una divisione dedicata a titoli first party si è detta più che aperta a sperimentazioni cross play con altre console.Fin’ora tutto bello. Ma è qui che iniziano le domande ostiche, alle quali ancora non si hanno risposte, ma immagino e spero che l’E3 di giugno possa diradare gli aspetti oscuri della faccenda:

  • Qual è il costo del servizio?
  • Ci sarà un abbonamento o si pagherà l’acquisto o il noleggio di un singolo gioco?
  • Quali sono i requisiti minimi di banda da avere per poter accedere decentemente al servizio e non vedere a video ciò che accade realmente 1–2 secondi dopo?
  • Quanto sarà difficile fare porting di giochi da Sony o Microsoft ad esempio, ad oggi con basi installate notevolmente più grandi?
  • Quanto dobbiamo fidarci sulla longevità e mantenimento di un servizio Google? La storia recente ha strascichi importanti in tal senso (Google+ o Google Reader giusto per citarne un paio)

Domande fondamentali per il successo o la morte prematura di una rivoluzione tanto attesa in un mercato in costante ascesa.

Un blog ti cambia la vita parte 2

L’ultima volta del Trono

Uno streaming per domarli tutti

Dettare

Ho recentemente acquistato il mio primo paio di AirPods. Pensavo di sentirmi uno stupido con quegli aggeggi dal design bizzarro e probabilmente disegnati tramite un’accetta, e invece sto iniziando ad usarli sempre di più:

  • Telefonando. Io cammino costantemente durante le telefonate. Ovunque sia, per parlare al telefono, io cammino. Le AirPods sono un aiuto non da poco, posso alzarmi dalla sedia e passeggiare dimenticandomi il telefono sulla scrivania
  • iPad Pro. Con il nuovo iPad che ha solo un’uscita USB-C o compri una cuffia apposta, o ti affidi a quelle bluetooth. Anche qui cascano a fagiolo. Metti che in una serata ci dividiamo gli schermi, io mi infilo le AirPods e mi guardo la qualsiasi da iPad

Ma arriviamo a uno spunto ulteriore al quale non avevo pensato. In effetti faccio uno sporadico utilizzo dei comandi vocali e di Siri in genere, forse solo abitudine, ma ancora non riesco bene ad automatizzare i processi. Leggevo questa column sul NY Times. Invece di scrivere fisicamente gli articoli, questo giornalista sfrutta soltanto la voce e due app dedicate in grado di registrare e sbobinare:

Here’s what I do: Instead of writing, I speak. When a notable thought strikes me — I could be pacing around my home office, washing dishes, driving or, most often recently, taking long, aimless strolls on desolate suburban Silicon Valley sidewalks — I open, a cloud-connected voice-recording app on my phone. Because I’m pretty much always wearing wireless headphones with a mic — yes, I’m one of those AirPod people — the app records my voice in high fidelity as I walk, while my phone is snug in my pocket or otherwise out of sight.

And so, on foot, wandering about town, I write. I began making voice memos to remember column ideas and short turns of phrases. But as I became comfortable with the practice, I started to compose full sentences, paragraphs and even whole outlines of my columns just by speaking.

Then comes the magical part. Every few days, I load the recordings into, an app that bills itself as a “word processor for audio.” Some of my voice memos are more than an hour long, but Descript quickly (and cheaply) transcribes the text, truncates the silences and renders my speech editable and searchable. Through software, my meandering memos are turned into a skeleton of writing.

The text Descript spits out is not by any means ready for publication, but it functions like a pencil sketch: a rough first draft that I then hammer into life the old-fashioned way, on a screen, with a keyboard, lots of tears and not a little blood.

Non credo arriverò a questo grado di complessità, anche perché non faccio il giornalista di professione, ma spesso mi capita che le idee migliori per i miei post mi vengano in auto mentre sto guidando, o prima di addormentarmi dove mi sta calando la palpebra e non ho più le forze di scrivere.Forse iniziare ad usare la voce mi aiuterebbe a non dimenticarmi dell’80% dei contenuti che invece avrei scritto qui.E voi come sfruttate la voice recognition?

Written by Andrea Contino since 2009