I messaggi hanno sostituito le telefonate. E a me sta bene così.

With so many digital avenues now available for reaching someone, the problem with phone calls is not that they’re inconvenient. It’s that they’re gauche. Especially for young people who tend to use their phones constantly, text messaging has become a roiling conversation that never really begins or ends.

There’s often just as strong an expectation of an immediate answer to a text as there has traditionally been to a phone call-a phenomenon probably familiar to you if your significant other has ever fussed at you for tweeting or posting to Instagram Stories while you’ve left him or her on read. A phone call might still carry a more explicit demand for attention, but it’s actually far easier to explain being unable to answer a call than a text.

Lo spunto arriva da un articolo di The Atlantic. Seppure la tesi sostenga che una telefonata oggi giorno sia molto meglio di un messaggino, in quanto quest’ultimi hanno creato un’aspettativa di risposta e una tensione non indifferente tra i soggetti in gioco, io resto a favore del testo scritto.Personalmente ho sempre ritenuto la telefonata una scocciatura, una perdita di tempo fatta di formalismi ai quali non mi sono mai troppo abituato, mentre sono perfettamente a mio agio con email, chat e quant’altro.Inoltre negli anni ho sviluppato i giusti “anticorpi” per affrontare serenamente le aspettative di risposta. I tempi li detto io, ovvio salvo emergenze, di quanto poter e dover rispondere.Si chiama comunicazione asincrona e forse troppo spesso ce ne dimentichiamo.

La musica che non c’è più

Dove sono io ora? Dove sono andato? Dove è finita la mia musica?

Ho scoperto musica che mi piaceva negli ultimi vent’anni. Ma le canzoni che mi hanno emozionato come mi capitava un tempo, in cuffia con il volume al massimo nella mia camera di studente, si contano sulle dita di una mano. Quattro o cinque in tutto, in un periodo molto lungo. Non ve le elencherò. Nei due decenni precedenti erano state invece centinaia, anche se molte di queste — ne sono convinto — rimangono solide certezze solo perché collegate ai meccanismi del ricordo e del rimpianto.

Il post di ieri di Massimo racconta una realtà molto comune. O per lo meno è ciò che vivo anche io nei miei mid 30s.Al di là dell’improvviso imbruttimento della musica, provo ad aggiungere la mia personale esperienza.Le canzoni pop e mainstream si sono via via accorciate, per permettere una fruizione veloce mordi e fuggi, sempre di più escono singoli ed EP invece di album proprio per rispettare questa logica. Questa è la prima diretta conseguenza dell’avvento delle piattaforme di streaming, le quali nel tempo sono riuscite a creare dei comportamenti al limite dell’isteria. L’accesso a una libreria pressoché infinita di brani fa scattare spesso la voglia di voler ascoltare il più possibile di un genere musicale, stando dietro alle nuove uscite del venerdì, così come le varie playlist suggerite.L’abbondanza crea dipendenza da ascolto superficiale. Molto raramente si ascolta un album fino a consumare la batteria dello smartphone e ci si emoziona ancora più di rado.Per vendere bisogna uniformarsi alle logiche contemporanee del mercato, anche se serve passare attraverso una musica inascoltabile (che poi per alcuni non lo è affatto ovviamente), e sono sempre più rari quegli artisti che prediligono la fedeltà al proprio stile musicale sopra le logiche di mercato. Dal mio personale punto di vista sono questi a rimanere gli ultimi baluardi di una produzione artistica seria.Insomma, se da un lato Spotify ci ha liberato dalle catene dell’inaccessibilità dell’ascolto, dall’altro ci ha relegato a un mondo di musica superficiale che passa dalle nostre orecchie con rapidità senza lasciare emozioni o ricordi. Quelle che ci riescono il più delle volte sono fuori da qualsiasi classifica Billboard e non ne sente parlare nessuno. Il vero lavoro da fare su quelle piattaforme da parte dell’utente è cercare quelle gemme nascoste e tenersele strette fino alla prossima playlist.

Discutere. Sì, ma per quale motivo?

In tanti anni di presenza su molteplici social network, raramente mi è capitato di partecipare a discussioni accese e ritrovarmi invischiato nel sadico meccanismo di controllo spasmodico del mio turno per esprimere la mia opinione.In questi giorni sono rimasto coinvolto in questa rarità. E le conclusioni a cui sono arrivato sono diverse e talvolta contrastanti.Mi sono domandato se avesse senso, fosse importante, portasse a qualcosa di costruttivo scrivere su Facebook mie opinioni personali, talvolta ruvide, per aggiungere il mio punto di vista a una discussione che comunque sarebbe lo stesso terminata in un binario morto.

Mi sono domandato invece perché non farlo. Perché rimanere impassibili, auto-eliminarsi da un discorso, che come detto sarebbe comunque finito su un binario morto, e lasciare spazio a una sola corrente di pensiero giustificandosi privando di importanza il fatto che lo scambio di opinioni avvenisse online e per di più su un social network.Mi sono domandato se il vortice di spreco di energie, il coinvolgimento emotivo, il rilascio di adrenalina valessero la pena. Se fossero soltanto dannosi per la mia sanità mentale oppure nascondessero qualcosa di diverso.Per mia natura non sono capace di lasciar perdere. Da non confondere con l’attaccare briga o fare il leone da tastiera come oramai piace tanto dire. Mi sono sempre reputato rispettoso dell’opinione altrui, anzi prego che tutti abbiano la possibilità di esprimerla.E così mi sono risposto. Lasciar perdere anche una insignificante discussione online talvolta è la mossa migliore. Per prima cosa perché il più delle volte non ho la titolarità né le competenze per aggiungere qualcosa al discorso. Ma quando si passa sul piano del giudizio e delle opinioni personali credo sia importante esserci, farsi sentire, con modi e tempi aderenti all’educazione e rispettosi della legge.Lo star zitti equivale a far passare una sola linea di pensiero, ad uniformarsi, al dover per forza aderire a una corrente che il più delle volte vuol far credere di essere onnisciente, sopra le parti, nel giusto perché utilizza il buonismo come leva giustificativa.Sì, è solo una diamine di discussione nell’etere. Ma quando è messa a repentaglio la libertà di esprimersi e rappresentare un contraddittorio, allora è giusto farsi sentire sempre e comunque.

Fare marketing rimanendo brave persone

Del libro di Giuseppe Morici mi porto a casa sia delle nuove idee su come trattare il mio lavoro quotidiano, sia accorgermi che perseguo la stessa volontà di narrare un brand attraverso i giusti tool a disposizione. O almeno mi sembra di farlo.Ho salvato questi due passaggi in chiusura del libro, si stagliano sopra tutti gli altri concetti per come si dovrebbe intendere questo mestiere, sia da chi lo fa quotidianamente, sia da chi dall’esterno spesso si sente il dovere di giudicare quando fatto.

Il marketing — se fatto bene, con onestà, con trasparenza e soprattutto con rispetto — è un’attività generativa di senso e di significati, a tratti persino meritoria forse, che aiuta le persone a vivere in un mondo più piacevole, perché fa loro conoscete le soluzioni utili per risolvere i loro problemi. Offre alle persone narrazioni, storie di marca, dalle quali le persone potranno, se vorranno, usufruire, godendone i valori e le emozioni, oppure semplicemente come fonte di intrattenimento.

Il marketing che ci piace — certamente — vende. Ma non vende tutto. Non a chiunque. E certamente non a tutti i costi. Il marketing che ci piace crea, ispira, ricorda, incanta, racconta, coinvolge, stimola, migliora. E soprattutto, nel più profondo rispetto del presente e del passato, si prende cura del futuro.

Mi permetto nel mio piccolo di voler aggiungere una sola postilla all’ottimo saggio, ricco di spunti ed esempi interessanti e snocciolati nella loro struttura.Per chi fa marketing, il proprio lavoro è estremamente agevolato se a monte esiste un prodotto eccellente. Mi spiego meglio. Apple ha una reputazione di alto livello anche grazie alla qualità del proprio prodotto, idem tanti brand che le persone amano e fruiscono quotidianamente. Non dico sia semplice raccontarli, ma si hanno molti più stimoli nel narrarli e trovare spunti creativi per presentarli al pubblico.Se la qualità della merce o del servizio offerto è scadente, povero nelle sue proprietà intrinseche, il mestiere di chi si occupa di marketing diventa estremamente difficile e potrebbe sfociare nella deriva che nel libro viene descritto come marketing cattivo.

Dieci

In dieci anni sono successe un sacco di cose. Ho lasciato e sono ritornato nella stessa azienda per ben tre volte, storie d’amore, ho visitato 18 Stati (alcuni più volte), ho fondato Fuorigio.co, due operazioni chirurgiche, ho intervistato sulla blogosfera con #WhyIBlog, conosciuto persone eccezionali e altre meno, visto la tecnologia esplodere in una escalation difficile da prevedere nel 2009, ho iniziato a postare una volta al giorno senza mai saltare dal 1° gennaio 2019.Oggi credo potrei chiedere davvero poco altro dalla vita, specialmente sapendo cosa ha in serbo per me il 2020.Se c’è una cosa che però non è cambiata mai è questo luogo.Non ho mai mirato alla gloria, non ho mai voluto diventare famoso o influencer e non ho mai inserito uno straccio di pubblicità o cookie qui dentro. Forse è anche per questo che le visite non sono mai esplose del tutto.All’inizio però con il blog mi sono anche divertito parecchio, non che adesso non sia un passatempo, ma sai, c’erano le blogfest, qualche azienda mi contattava per recensire i suoi prodotti o fare qualche attività carina, scrivevo con una media di tre post al giorno, e sembrava esserci una reale connessione tra chi scriveva, tanto da chiamarsi blogosfera. Tanto da portare qualcuno a chiamarsi blogger, a farla diventare una professione vera e propria.Poi qualcosa è cambiato.I blog non andavano più di moda, le persone si spostavano di piattaforma in piattaforma, a caccia di uno spazio dove meglio mostrare il proprio ego e finalmente esaudire i propri desideri voyeuristici: erano arrivati i social network.Con estremo ritardo rispetto al resto del mondo, anche qui le immagini e la consumazione snack di contenuti stabilì le sue fondamenta senza più andarsene. YouTube prima, Facebook e Instagram poi premiavano (e in alcuni casi ancora oggi) il contenuto veloce da consumare, che con poca fatica da parte di chi creava tanto quanto da quella di cui fruiva si andava online in pochi minuti.Una nuova élite.Dal canto mio non mi hanno mai interessato quelle derive, sia per motivi di approfondimento del contenuto, sia per avere completo controllo proprio su quel contenuto. Sono rimasto fedele alla mia home page, alla mia URL, insomma a dover aprire un browser e smanettare spesso di codice per restare al passo coi tempi.Come tante volte ho scritto, non penso cambierò mai questa mia convinzione, uno spazio personale, riconoscibile, scevro da incessante rumore di fondo, resta ancora oggi una preziosa casa dove rifugiarsi per raccontare qualcosa senza dover badar troppo ai dettami di metriche, like, follower etc.Se c’è una cosa che ho imparato in questi 10 anni è l’impossibilità delle altre piattaforme di fare altrettanto. E mentre altri come me amano rimanere ancorati a una pagina bianca con pochi altri ammennicoli al seguito, per conto mio non posso che chiudere dicendo grazie. Prendo spunto da un recente post di Om Malik.

As much as I love reading long magazine articles and books by the dozen, nothing makes me happier than thinking out loud on a blog. It is the easiest form of writing for me, and it allows me to fully capture what is going on in my mind (which, as you may have noticed, can be very random).

These days, it is popular to have a newsletter and a podcast — and I have those too — but for me, blogging is the future. If you like to read, come along. If not, it’s okay. I will be over here, just doing my thing. I am hoping to blog more frequently and to take a more traditional approach to blogging — links, photos, short posts, and long essays.

Scrivendo qui ho conosciuto meglio me stesso, ho superato sfide che pensavo di aver perso ancora prima di affrontarle, ho acquisito conoscenze ed esperienza indispensabili per il mio lavoro. Non fosse stato per il blog non avrei girato il mondo seguendo la mia passione per i videogiochi e la comunicazione. Non fosse stato per questa mia idea di voler condividere, forse non sarei l’uomo che sono oggi.Non so dire se ad oggi per chi si affaccia al potere della condivisione sia ancora il mezzo indicato, il potere delle immagini è imbattibile, d’altro canto reputo rimanga uno strumento indispensabile per conoscere e conoscersi.

I don’t see the blog as work, to me it’s more like a part of living

Esattamente.Fino al prossimo post.

The Game

Terminato The Game ammetto di non aver molto da commentare. Lo stile di Baricco è arzigogolato e pieno di iperboli linguistiche, ma molto facile da comprendere, coinvolgente e trascinante per chi ama la materia.Il fil rouge del testo è rappresentare internet e l’evoluzione tecnologica di questi ultimi 70 anni come un’escalation evolutiva innescata dall’avvento dei videogiochi. Sotto gli occhi di tutti, le dinamiche videoludiche si nascondono in ogni pertugio della rete eppure vengono ancora demonizzati per la troppa violenza o concause di catastrofi ed eccidi di massa provocati dall’uomo.Mi sono segnato alcuni passaggi per me interessanti e da portare con me nella costante esplorazione della connessione fra umani sia essa fisica od online.Il primo spunto parte proprio da qui. Ridurre, ma in senso positivo quindi sintetizzare, le nostre due nature in una sola in fondo. Quando leggete o vi parlano de “il popolo del web”, non siamo sempre noi? Non è sempre la stessa gente che incontrate per strada che semplicemente è tornata a casa ed ha acceso un device?

Attrezzare il mondo di una seconda forza motrice, immaginando che il flusso del reale potesse scorrere in un sistema sanguigno in cui due cuori pompavano armonicamente, uno accanto all’altro, uno correggendo l’altro, uno sostituendosi ritmicamente all’altro

Questa definizione di connessione costante, lo scollamento del nostro io dal nostro corpo per frammentarsi i tanti piccoli pezzi e ritrovarsi altrove, perso in un mondo composto da infinite derive è una narrazione forte, piena di significato utile a raccontare l’esperienza di ognuno di noi attraverso l’etere.Difficile non essersi sentiti almeno una volta così:

Incroci. Colleghi. Sovrapponi. Mescoli. Hai a disposizione cellule di realtà esposte in un modo semplice e velocemente usabile: ma non ti fermi a usarle, ti metti a LAVORARLE. Sono il risultato di un processo per così dire geologico, ma tu le usi come l’inizio di una reazione chimica. Colleghi punti per generare figure. Accosti luci lontanissime per ottenere lo forme che cerchi. Percorri velocemente distanze enormi e sviluppo geografie che non esistevano. Sovrapponi gerghi che non c’entravano nulla e ottieni lingue mai parlate. Dislochi te stesso in luoghi che non sono tuoi e vai a perderti lontano. Lasci rotolare le tue convinzioni su ogni piano inclinato che trovi e le vedi diventare confusamente idee. Manipoli suoni facendoli viaggiare dentro tutte le loro possibilità e scopri la fatica di ricomporli poi di nuovo in un suono compiuto, forse addirittura bello; fai lo stesso con le immagini. Disegni concetti che sono traiettorie, armonie che sono asimmetriche, edifici che disegnano spazi in tempi diversi. Costruisci e distruggi, e ancora costruisci, e poi di nuovo distruggi, in continuazione. Ti servono solo velocità, superficialità, energia.

Infine, un ultimo tratteggio di quello che personalmente ho interpretato come il fenomeno di questi ultimi 10 anni. Gl influencer. Siano essi blogger, youtuber, instagrammer etc. etc., sono tipicamente quelli che hanno compreso prima di tutti gli altri le potenzialità di una piattaforma non dal punto di vista puramente tecnologico, ma dal punto di vista narrativo. Hanno visto prima degli altri come utilizzarla nel modo corretto per trasformare una propria narrazione in una sorta di potere, monetario o di follower, d’opinione o lavorativo. Indubbio dire che siano stati in grado di formare un’élite.Quanto e come si evolverà dipenderà soltanto da quale sarà la prossima piattaforma.

Non tutti sono uguali davanti al Game, alcuni giocano meglio altri peggio, e quelli che giocano meglio finiscono per condizionare il resto del tavolo da gioco, a rigirarlo come fa comodo a loro, a diventarne in certo modo i sorveglianti, o almeno i primi player, diventando qualcosa che possiamo tranquillamente chiamare col suo nome, per quanto adesso ci sembri sorprendente: diventano un’élite.

Dai Sardegna ingrana la quarta

Beato Te Milano 🍕

L’amore per la pizza porta in lidi lontani. Talvolta trovi quella perfetta in luoghi sconosciuti, altre volte tramite il consiglio di un amico. Beato Te Milano arriva alle mie orecchie tramite un collega che me ne decanta la digeribilità e la possibilità di scegliere tra tanti impasti differenti.Dopo un anno, su per giù, finalmente domenica scorsa ho provveduto a soddisfare la mia sete di conoscenza.Non me ne vogliano gli abitanti di Lorenteggio, ma diciamo per chi come me arriva dalla provincia est di Milano non è proprio alla mano, ma complice la settimana entrante di ferragosto in 35 minuti di tangenziale semi deserta ci siamo arrivati agevolmente.Il locale è davvero spazioso disposto su più livelli. All’entrata una schiera di camerieri che nemmeno all’Apple Store, tutti gentili e pronti a salutarti e accoglierti.Rispetto a tante pizzerie non c’è una lista infinita di pizze. Il menu viene suddiviso in due, pizze normali e pizze gourmet. Io ho puntato sulla seconda categoria ordinando Il Bel Paese con impasto di Kamut.Già…gli impasti. Ce ne sono 10 tra cui scegliere e varrebbe la pena tornarci solo per provarli tutti. Per me la prova del 9 per giudicare un impasto di una pizza consumata per cena è la notte. Se si passa la nottata rigirandosi per il gonfiore e per quella sensazione di dover partorire la pizza da un momento all’altro, allora non è un posto da frequentare più.Devo ammettere invece che, nonostante il bendidìo schiaffato ad ornamento della mia pizza, l’impasto è risultato croccante e morbido allo stesso tempo, un equilibrio necessario per poter affrontare le guarnizioni senza sovrastarle.Consiglio di prenotare, soprattutto nei weekend, perché sempre molto sold-out. Ci ritornerò senz’altro per provare altri sapori e altri impasti, intrigante quello al carbone e quello al mais. Non è la pizza migliore che abbia mai mangiato, ma sicuramente è un sì pieno e deciso.Beato Te MilanoVia Sant’Anatalone, 16, 20147 Milano MI★★★☆

La contaminazione fa sempre bene

Il post di Gianluca di questa settimana verteva su tre modi per rimanere competitivi in un mercato aggressivo e un po’ troppo copione.A me piace soprattutto la seconda modalità, riportata per comodità qui sotto:

La seconda consiste nell’importare qualcosa di già esistente, ma da un altro settore. Uno dei miei crucci esistenziali è che in tanti settori gli head hunter cacciano sempre nello stesso recinto, catturando prede che hanno visto solo un ambiente e un tipo di cibo, che ha imparato i comportamenti dai sui consimili fin dalla tenera età lavorativa. Questo è un handicap fatale. E invece i modelli di business, di filiera, di pricing, di advertising dovrebbero essere ibridati.

I settori, come i secoli, sono creazioni umane artificiali, che non hanno corrispondenza diretta nella mente del consumatore. I mezzi di contatto hanno visto crollare i prezzi per arrivare al consumatore. I mezzi di consegna stanno seguendo la stessa strada. Ibridazione è la via. La consanguineità porta all’estinzione, anche nel marketing. “Come sarebbe il vostro zampirone se lo facesse Apple?” (Se non sapete cos’è uno zampirone non siete padani, beati voi)

Questo tipo di contaminazione la vivo quotidianamente al lavoro, il mio team è formato prettamente da figure provenienti da settori differenti dal quale oggi ci troviamo ad operare. Oltre al bagaglio di soft skill di ognuno di noi, il percorso professionale e la iper specializzazione delle nostre competenze fa sì che potremmo saltare da un settore ad un altro senza dover per forza soffrire di misplacement o sentire di operare out-of-contest.La contaminazione in linea generale fa sempre bene, rinnova settori spesso vetusti e morti d’abitudini consolidate e del così fan tutti. La cosa davvero importante è che chi contamina deve saperlo fare talvolta senza dover badare troppo al competitor diretto e alla folla rincorsa del — ah ma se l’hanno fatto gli altri, dobbiamo farlo anche noi — ma cercare di differenziarsi per poter stabilire nuovi standard a cui nessuno aveva pensato prima.Senza dover disturbare per forza Jobs, è però tremendamente vero che le persone non sanno cosa vogliono finché non glielo si piazza davanti agli occhi. E sono fermamente convinto che se prodotti o servizi innovativi hanno dalla loro la cura e la passione, doverose per poter sopravvivere, partono con un vantaggio competitivo non indifferente: l’effetto sorpresa.

Cambiare tecnologia

In questi giorni ho davvero tanto tempo da riempire con tutta la multimedialità possibile che vi venga in mente.Sono finito in un vortice di thread su twitter sulla pericolosità degli strumenti che siamo abituati ad utilizzare online ormai da una decina d’anni e più.Non vanno più bene, non sono più sicuri, la nostra vita è in pericolo. Gmail da sostituire, Dropbox men che meno, il tuo CMS non ti indicizza più e quindi va sostituito, per non parlare dei dati personali e quindi devi spostare tutto immediatamente e affidarli ad una start-up estone. E così per tanti altri servizi.C’è però che l’abitudine è una brutta bestia e la comodità da essa derivata ancora di più. C’è che sono incensurato, pago le tasse e non ho segreti di stato da nascondere a nessuno e di certo quanto mi è più caro e importante non lo salvo su nessuno di questi servizi e ove necessario prendo tutte le dovute precauzioni del caso (cambio password spesso, 2-step verification etc.). Pertanto continuerò ad utilizzare quelli che meglio rispondono alle mie esigenze prendendo le dovute precauzioni, ma evitando di farmi spaventare più del dovuto.Sinceramente rinunciare a tutto ciò per paura di essere targettizato, spiato o quant’altro ha gran parte di verità, ma è altrettanto vero che l’allarmismo è spesso e volentieri esponenzialmente amplificato senza una tangibile ragione.Il furto di identità e dei dati online è spesso e volentieri colpa dell’utente stesso e questo il più delle volte è dovuto dalla scarsa educazione digitale. Non può purtroppo essere una giustificazione e piuttosto di dover andare a cercare con il lanternino soluzioni alternative riguardanti la privacy e tutte queste menate, basterebbe porre la dovuta attenzione ai tanti settings a disposizione di account che già utilizziamo quotidianamente.Io ci ho anche provato a spostare questo blog altrove, a cambiare provider di email, a passare da Safari ad altri browser, ma non ho più voglia di dover re-imparare tutto daccapo. Piuttosto “spreco” il mio tempo nell’aggiustare i miei profili attuali, cercando di limitare i danni.

Written by Andrea Contino since 2009