Perdersi è la cosa migliore
Settimana scorsa ho salvato un articolo di Internazionale sulla gioia di perdersi qualcosa. Certo che prima o poi avrei trattato l’argomento.
Questa sensazione è in netto contrasto con una delle malattie dei nostri tempi: la Fomo (fear of missing out), cioè la paura di perdersi qualcosa. Secondo l’imprenditrice Caterina Fake, che ha contribuito a rendere popolare questo termine, la Fomo è “un vecchio problema, aggravato dalla tecnologia”: non siamo mai stati così consapevoli di quello che gli altri fanno e noi no. Facebook e gli altri social network provocano Fomo, e ne traggono profitto: li controlliamo continuamente anche per avere la sensazione di partecipare a distanza.
Ci sono tornato ieri col pensiero mentre guardavo Boyhood. Ad un certo punto il protagonista, in questo concentrato di passaggi cruciali della sua vita, nelle ultime battute pronuncia questa frase:
I want to try and not lead my life through a screen
Mi ha sulle prime ricordato una reazione alla Vita à la “Into the Wild”, ma dopotutto è ciò che ho fatto anche io da qualche mese. Ho dato ascolto al mio corpo e alla mia mente e semplicemente ho riassegnato delle priorità.Come passare una giornata intera con qualcuno che non vedi da una vita, ma sai che in realtà c’è sempre stato. Provare a guardare un concerto intero cercando di lasciare il cellulare in tasca, anche se con poco successo. Stare vicino a chi ti fa capire di aver bisogno di te, ma non te lo dice per non sentirsi un peso.Ciò che mi sto perdendo è la vita degli altri e non la mia. E questo è un pensiero a cui mi piace tenermi stretto.
In fondo non ci stiamo veramente “perdendo” qualcosa se, inevitabilmente, la stanno perdendo quasi tutti gli altri. Stare male per questo è come disperarsi per non essere in grado di contare all’infinito.
Sparire dal proprio blog accade sempre per un motivo. Ora sapete che mi sto perdendo nel Mondo, qui potreste trovarlo in differita.
True Detective e l’importanza del dialogo
Questo non è un post su True Detective. Lascio alle migliaia di pubblicazioni online vicine alle serie TV il compito di descrivervi la serie, così come ha fatto Vice qui molto bene. Questo è un post sulle parole e su come chi sa concatenarle nel modo giusto abbia vinto già una grossa battaglia: quella per l’attenzione.Probabilmente faticherete ad accorgervene, è una sensazione difficile da decifrare. Restare incollati allo schermo senza addormentarsi di fronte al televisore dopo una giornata mentalmente massacrante, è cosa non da poco di questi tempi.L’abbondanza di produzione multimediale, tuttavia, ci garantisce una agevole via di fuga dall’evitare un calo della palpebra cronico. E, in questo ventaglio di opzioni tendenti all’infinito, il saper scegliere mette in gioco sostanzialmente tutte le nostre percezioni sensoriali, incluse quelle meno consce.Il dialogo in una serie televisiva, ad esempio, è una di quelle caratteristiche in grado di immergerci nella visione, oppure farci storcere il naso per le troppe banalità udite. Questa, tra tutte le altre, è quella che ci consente di comprendere fin dalla prima puntata se quanto mostrato davanti ai nostri occhi merita la nostra attenzione per le puntate a venire.Pochi ci riescono. Pochi sono in grado di catturare la mia di attenzione. E, pur non essendo un capolavoro da cambiare i paradigmi di genere, True Detective a mio modo di vedere è una serie dove il dialogo tocca delle vette qualitative così elevate da risultare stucchevole.Ora, pur io avendo visto solo le prime 4 puntate e magari voi nessuna di queste, il monologo che segue non rovinerà assolutamente la trama di quanto potreste apprezzare nel completare la visione della prima serie. Tuttavia è un fondamentale esempio di quanto ho descritto poc’anzi.Scusate le immagini forse un po’ crude, ma concentratevi sulle parole. Sulla metafora perfetta di chi si concentra sul significato della vita in punto di morte. Parole meritevoli di riflessione.[embed]https://contino.wistia.com/medias/68i2gvkgqe\[/embed\]Il dialogo in senso lato è anche quello filmico e la bravura di chi lavora ad una produzione audiovisiva è anche quella di sapersi rivolgere al pubblico di riferimento evitando di estraniarlo dalla realtà in cui vive, introducendo riferimenti storici del tempo in cui si vive. Questa è anche una delle sottolineature di eccezionale bravura anche dei dialoghi ritrovabili in House of Cards attraverso le parole del suo protagonista Frank Underwood.[embed]https://contino.wistia.com/medias/o5lp2m0o9t\[/embed\]Questa scena, a quanto pare molto apprezzata, si svolge nel quarto episodio ed è un piano sequenza lungo 6 minuti. Un linguaggio stilistico poco comune in una serie televisiva, così anche nel cinema contemporaneo, tutta poco estraneo ad un contesto del genere. Si spiega difatti in modo egregio collocandola accanto ad alcune scene del videogioco GTA con inquadrature, pathos, emozioni molto simili a quelle vivibili in questi 6 minuti.Tutto questo per dire cosa?Cercate di prestare attenzione a tutte le sfumature di un racconto, sotto qualsiasi forma esso si presenti. Badare soltanto alla storia limita le percezioni di sensi altri rispetto alla mera trama. Il significato ama nascondersi sotto molti significanti, i quali, non per forza devono essere quelli più facilmente riconoscibili.
La vista di Massimo da lì
Complice un relativo lungo viaggio fatto sabato mattina, sono riuscito a leggere tutto d’un fiato “La vista da qui”, il libro di Massimo Mantellini uscito il 30 agosto scorso.Quando ho chiuso la copertina, dopo aver letto l’ultima pagina, mi sono appuntato molte domande. Tanti chissà… La prima, la più immediata, è se gli fosse servito questo periodo di soggiorno a Londra per riflettere con maggior intensità su quanto avviene in Italia, e così poterne scrivere un libro. Poi mi sono risposto da me, sul suo blog ne scrive praticamente ogni giorno, il motivo è stato forse per raggiungere quella metà di italiani che, come scritto nel libro, di stare sulla Rete proprio non gli passa dall’anticamera del cervello.
Le domande, come dicevo, non sono terminate.Mi sono subito immedesimato nel “ mediatore sentimentale” in apertura del capitolo dedicato al copyright. Così come interpretiamo oggi il diritto d’autore quaggiù, ma allo stesso modo negli Stati Uniti, è qualcosa che necessita di una revisione sensata realizzata, soprattutto, da persone in grado di discernere l’ampliamento della conoscenza, dall’atto di pirateria a scopo di lucro. Massimo va al nocciolo della questione. Chi fa le leggi spesso non sa nemmeno di cosa sta parlando e ragiona con schemi non applicabili da media a media.Internet in tutte le sue forme si è da sempre contraddistinto per replicare un modello già esistente nella creazione di cultura da parte dell’essere umano. Trasformare in qualcosa di diverso, migliore o peggiore è a descrizione del singolo, ciò di quanto già esistente. Combinare e fondere esperienze pregresse per ampliare gli orizzonti cognitivi.Chissà cosa ne penserà ora Massimo, dopo aver scritto e pubblicato un libro e annoverandosi di diritto tra quella schiera di persone protette da copyright, se il suo libro dovesse essere copiato o fatto a “pezzi” e ricomposto per diventare “altro” in maniera del tutto free. Conoscendolo un pochino, credo di sapere già la risposta.Tutto il testo, a mio modo di vedere, ruota attorno ad un concetto fondamentale seppur banalissimo, ma di cui una bassa percentuale di persone tiene purtroppo conto. Internet non è un mondo extra-terrestre, non è popolato da un Avatar nella concezione cinematografica del termine. Ci sono persone, ci siamo noi, e ci sono gli stessi medesimi comportamenti vigenti tra umani in carne ed ossa. Esiste solo un’intermediazione in cui non è prevista la presenza tattile. Chi non l’ha ancora compreso, non ha ancora capito di cosa si tratta.Percorre questo fil rouge il capitolo dedicato alla privacy, dove il controllo della identità online è dato da quegli stessi strumenti in grado di amplificarne l’ego e la diffusione. E così come dobbiamo stare attenti a proteggere in un luogo sicuro le chiavi della nostra abitazione dopo averla chiusa adeguatamente, abbiamo tutti gli strumenti in grado di controllare quanto di noi vogliamo mostrare al mondo. L’importante è sempre avere il controllo ed evitare che le “chiavi” finiscano in mani sbagliate o siano facilmente rintracciabili. Chissà cosa avrebbe aggiunto Massimo al capitolo dopo quanto avvenuto nei giorni scorsi sul maggior caso di furto di autoscatti di nudo ai danni di alcune celebrità, per poi essere rese disponibili al grande pubblico.Infine, sapevo Massimo sarebbe ritornato sulla questione supporti vs contenuto. Nel capitolo dedicato ai libri c’è un passaggio in cui mi sono rivisto nel mio essere lettore oggi. Per me il supporto non conta più, non preferisco quello elettronico alla carta e viceversa. Preferisco anche io il contenuto. Per questo ho comprato i 4 volumi delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco sia cartacei che in formato eBook. È la circostanza in cui mi trovo come lettore a fare la differenza e solo questa. Tuttavia siamo ancora “carcerati” dietro legislazioni medievali dove se acquisto un libro cartaceo non posso avere in automatico anche la versione elettronica, sebbene io stia acquistando l’opera di un artista, non il suo supporto.È facile accorgersi di come in questo breve saggio Massimo non racconti di sé stesso, ma piuttosto della finestra affacciata sulla sua personale esperienza dell’Internet (si per me sarà sempre maiuscola) italiana di cui anche lui ha contribuito a crearne un racconto storico attraverso il suo ultra decennale blog. E una vista come la sua, carica di esperienza, ci dice che la verità sta nel mezzo, dove è necessario dotarsi di un occhio universale e non parziale per poterne comprendere le miriadi di sfaccettature. Sia positive che negative.Un mio personalissimo consiglio: leggetelo in tempi brevi. È senz’altro da annoverare tra i volumi della storia dei media, ma fate in fretta, la scelta di un supporto cartaceo impone uno specchio dei tempi correnti molto limitato. Tra non molto quello scritto di Massimo sarà “solo” altra storia.ps. Piccola nota per l’editore minimum fax. Avrei lasciato la pagina bianca subito dopo la fine, come chiesto dall’autore del libro.
Da E’ a È: Italiano e tastiere, una storia complicata.
[embed]https://www.facebook.com/AccademiaCrusca/photos/a.598007076909584/699215906788700/?type=3\[/embed\]Nemmeno poi troppo.Al di là dei consigli utili dell’Accedemia della Crusca pubblicati su Facebook circa l’utilizzo corretto degli accenti, il più delle volte gli errori online, ed in particolare uno, sono causati da una scarsa conoscenza della tastiera.A ragion veduta aggiungerei, visto che per Windows ad esempio c’è la necessità di ricordarsi un codice specifico o una combinazione di tasti.Ripropongo quindi il post di Giovanni in cui spiega come facilmente sostituire il layout della vostra tastiera in modo da poter fare tutte le maiuscole accentate con la semplice combinazione di CAPS LOCK + à, è, ì, ò, ù.
31
Credo di non aver mai scritto per un compleanno qui sul blog. Non mi va nemmeno di andare a cercare nell’archivio. Tant’è mi sentivo di farlo.Avevo salvato l’oroscopo di Internazionale nella settimana del 30 aprile con l’intenzione di postarlo proprio oggi. Qui, pur non credendo minimamente nelle arti divinatorie, ho solo ritrovato uno stato d’animo di questo mio personale momento storico.
Il che non è necessariamente riferito a persone in particolare e nemmeno a situazioni precise. È solo un sentire la profonda voglia di fare spazio a nuove “costruzioni”.Quello passato è stato un anno intenso, forse più di tanti altri perché vissuto con piena consapevolezza di molte cose.Tante sono cambiate restando le stesse, altre identiche mutando solo pelle. 31, una per ogni anno:
- È il secondo anno che vivo da solo
- Ho amato e mi hanno ricambiato
- Ho lottato, ho vinto e ho perso
- Vado all’assemblea di condominio
- Pago tonnellate di tasse
- Mi rispecchio sorridendo con gli scritti de I Trentenni
- La bellezza di vivere in un’epoca tecnologica come questa
- Con buona pace di “Quelli che…i blog sono morti”
- Il tempo non basta mai. Mai, mai, mai
- Per questo seguo 5 serie TV, scrivo su due blog, videogioco (verbo) come mai prima, e ho iniziato a leggere tutti i 12 libri de Le cronache del ghiaccio e del fuoco
- Ho visto i delfini, davanti la Corsica attraversando il Tirreno
- Ho scritto di come poter cambiare il mio Comune prima delle elezioni e da un paio di settimane lo sto facendo supportando il team di comunicazione con la pagina FB e Twitter. La passione, anche di pochi, porta lontano
- Da qui, se le cose non inizi a cambiarle tu, nessuno lo farà per te
- I miei migliori amici stanno per avere una bimba. Non piangevo di gioia da tanto tanto tempo
- Ho appena allargato il layout del blog. Siamo nel 2014, il 1920 dove essere il minimo della risoluzione degli schermi di tutti voi
- Al lavoro c’è la magia di sfidare solo una persona. Me stesso. Ci sto riuscendo
- Barbalbero e Fabri Fibra hanno ragione da vendere. Quando nessuno sta dalla tua parte non stare dalla parte di nessuno
- Non si può controllare ogni singolo aspetto della vita. Nonostante siano ancora i dettagli a fare la differenza
- Tutti buoni a fare gli espertoni di calcio solo quando c’è il mondiale
- Ok e chi non lo fa?
- Le priorità a corto raggio sono le più difficili da gestire. E hanno la capacità di concentrarsi tutte nello stesso momento
- Per la prima volta in vita mia ho vinto un concorso
- Non sono mai stato a NY prima dei 30 anni. Dopo averli compiuti ci sono andato 3 volte in 4 mesi
- Nessuno può uccidere le emoticon
- La musica in streaming sarà lo standard del futuro
- Avere un ADSL che funziona è solo culo. Solo e soltanto culo
- Nessuno è mai troppo giovane o incompetente per non essere considerato
- Her. Ho timore a riguardarlo
- Queste pagine sono tra le cose a cui tengo di più. Sono me
- Grazie mamma. Grazie papà
- Non mi importa più del compleanno, è solo un anno in più da aggiungere, un anno in meno da godere
Il Never Give Up di Simone farebbe di tanti posti, un posto migliore:
Il fondamento del “pensare positivo” sembrerebbe essere che a pensare negativamente ci si attiri addosso solo sventure. Ciò mi trova d’accordo. Ma non giustifica il pensare positivamente come soluzione*. Esiste infatti la terza via: pensare e basta. Che nella sua accezione naturale significa vedere il bicchiere e il suo contenuto senza focalizzarsi sul mezzo vuoto ma neppure sul mezzo pieno: è solo un dannato bicchiere.
È il bello e il brutto di navigare a vista. Si vede l’orizzonte, la mappa c’è anche se ancora poco decifrabile.L’importante è non mollare mai.
Wolfenstein: The New Order. ACHTUNG! ACHTUNG!
Quando decisi di recensire Wolfenstein: The New Order mi accorsi immediatamente di due cose.
- La prima: Non prendevo in mano un puro sparatutto da troppo tempo.
- La seconda: Le innumerevoli partite giocata a Wolfenstein 3D sul mio 486 oramai oltre 15 anni fa.
Medium? Qualche volta. La blogosfera non è più personale
Lei — il film
Arrivo tardi, forse troppo, complice l’assenza di Internet a casa a parlare di Lei/Her il film di Spike Jonze uscito il 13 marzo qui in Italia. Devo ammettere di aver avuto tantissime aspettative fin da quando l’anno passato ho visto il primo trailer apparire in Rete.Lei/Her è il racconto di un uomo solo, non solitario, ma un nerd molto simile a Leonard Hofstadter di “The Big Bang Theory”. Un mix di nerdismo e dolcezza con l’incapacità di ricucire i cocci del proprio cuore spezzato da un matrimonio fallito alle spalle.Un blocco troppo grande da poter gestire in un rapporto con una persona fisica. Allora il protagonista, Theodore, decide di avvicinarsi ad un nuovo prodotto tecnologico in una Los Angeles futuristica. Ue sistema operativo, un’intelligenza artificiale in grado di apprendere e interagire con lui come se fosse una persona vera avendo esperienza del mondo attraverso la telecamera del suo smartphone e un’auricolare dal design minimalista all’orecchio.Purtroppo ho visto la versione italiana del film, mentre nella versione originale la voce di Samantha, il nome dell’AI scelto da Theodore, è interpretata dalla sensuale Scarlett Johansson.[embed]https://youtu.be/pHSPor3VZ9E\[/embed\]Ci troviamo di fronte insomma una Los Angeles dove le macchine non hanno preso il sopravvento come in Terminator, ma si sono integrate per migliorare la vita dell’uomo non solo a livello funzionale e di commodity. Sono tasselli necessari per sopravvivere.Lei fa riflettere tanto sulla condizione di solitudine degli uomini di questo secolo, focalizzandosi non tanto sulla pericolosità di cosa potrà essere la tecnologia tra qualche decennio, quanto la pericolosa deriva dello smettere di avere rapporti profondi con una persona in carne ed ossa.Tuttavia la tecnologia potrebbe esserne essa stessa sia la risposta che la concausa, ciò non toglie il nostro bisogno primordiale di condivere con un altro essere umano questa pazzia chiamata amore.Ho letto tanti spunti e opinioni diverse sul film, cercando di trovare più interpretazioni che recensioni che non si limitassero a ribadire la banalità: è un film che racconta il rapporto tra un uomo e un’intelligenza artificiale. Ero interessato a comprenderne i significati intrinsechi. Un paio in particolare mi hanno colpito. Entrambi si focalizzano su il pensiero di Samantha non tanto come sistema operativo diventato un partner con cui condividere una vita, ma piuttosto uno specchio che in modo speculare indirizza i bisogni di Theodore. Il primo su Medium:
Samantha is Theodore’s reflection, a true mirror. […] She becomes needy in ways that Theodore is loath to address because he has no idea what to do about them. They are, in fact, his own needs. The software gives a voice to Theodore’s unconscious. His inability to converse with it is his return to an earlier point of departure for the emotional island he created during the decline of his marriage.
Mi sono trovato subito d’accordo. La voce di Samantha dà forma e trova la rapida risposta alla deriva emozionale nella quale è finito il protagonista. Allo stesso modo il secondo articolo trovato sull’argomento:
The voice of Samantha, the operating system, performed by Scarlett Johansson, sound very, very much like a real person. On the other hand, her role has, in the beginning, an appropriate ring of ingratiation: Samantha has been designed to anticipate the needs (technical, psychological, and emotional) of her user. Samantha giggles at Theodore’s jokes while making herself useful by sorting his email.
Purtroppo non ricordo le parole precise del film italiano, ma all’inizio del film il protagonista dice queste parole:
Sometimes I think I have felt everything I’m ever gonna feel. And from here on out, I’m not gonna feel anything new. Just lesser versions of what I’ve already felt.
Qui mi sono un attimo paralizzato sulla poltrona del cinema. Una frase spesso ripetuta più volte nel mio cervello e adesso riproposta sul grande schermo. Una percezione aumentata di se stessi piuttosto che un malessere. Un’analisi molto precisa e accurata di Jonze rispetto alla disperata ricerca di qualcosa in grado di stupirci ancora. Ancora una volta la tecnologia nella sua doppia natura distruttrice e risolutrice.Il regista fa un percorso molto ampio per permettere a Theodore di comprendere che non esiste macchina più complessa di quella umana e che i suoi bisogni, speranze e desideri sarebbero stati compresi soltanto da qualcuno in carne ed ossa.Non ho apprezzato molto la chiusura affrettata e l’eliminazione dell’intelligenza artificiale Samantha in stile The Matrix con un ritorno a una città delle macchine. Ho invece molto apprezzato il girato della scena finale con i frame conclusivi di due corpi umani così vicini e così lontani, ma i soli a potersi dar pace vicendevolmente.
In Lei/Her ci sono anche tante altre cose molto belle e curate. A partire dal design futuristico, ma soprattutto minimalista in grado di trasmettere un ampio senso di pace e tranquillità, tratteggiando i contorni di una Los Angeles senza auto, ma piuttosto vivibile soltanto con mezzi pubblici e i propri piedi.Qui la mappa interattiva delle location utilizzate.La fotografia e la scelta di colori pastello, il rosso su tutti, rende l’atmosfera del film sempre molto simmetrica ed equilibrata. Predominante la sobrietà e la voglia di semplificare.A questo proposito vi consiglio la lettura su The Verge dello studio grafico dietro il sistema operativo e come sono state scelte le location del film, ovviamente su LA Times.E ultima, ma non ultima la colonna sonora curata interamente dagli Arcade Fire. Qui da ascoltare nella sua interezza.Da Lei/Her è stato tratto anche un piccolo progetto collaterale all’interno della raccolta “The Creators Project” un’iniziativa di Storytelling tra Intel (non nuova a cose del genere) e Vice Magazine.Un breve girato nel quale è stato chiesto ad attori e creativi di dare la loro definizione di Amore nei tempi nei quali stiamo vivendo. Il risultato è il seguente e merita di essere visto.Un ultimo tassello a rimarcare il messaggio più cristallino di tutti di questo film. Condividere un sentimento, sia esso con altri umani o con una macchina (qui uno spunto filosofico del Times), è una cosa potente e il più delle volte incontrollabile. Ed è bellissimo.
Noi stessi, anonimi
A marzo scorso parlavo di come online ci identifichiamo per ciò che condividiamo, tema ripreso anche da Luca poco tempo dopo, affermando come fosse l’anonimato a renderci davvero liberi di esprimere la vera natura delle nostre idee.Tra le rispose ai commenti avevo aggiunto:
Il concetto è semplice, l’app accede alla tua lista contatti, da qui in maniera totalmente anonima viene chiesto di condividere qualsiasi pensiero ci passi per la testa in maniera totalmente anonima. Il network di contatti, dopo un limite iniziale a quelli personali, inizierà ad espandersi.L’idea alla base di tutto: una volta “divorziato” dalla propria identità, si dovrebbe essere maggiormente propensi e aperti a condividere qualsiasi cosa. Eliminando le inibizioni a condividere così ciò che realmente si pensa.App del genere ne esistono già, ma Secret premia però il pensiero e i commenti condivisi piuttosto che l’utente ad aver lanciato il thread.Tra le news tecnologiche di questa mattina leggo di una nuova applicazione per iOS in rapida crescita in termini di utilizzo negli Stati Uniti: Secret.Il concetto è semplice, l’app accede alla tua lista contatti, da qui in maniera totalmente anonima viene chiesto di condividere qualsiasi pensiero ci passi per la testa in maniera totalmente anonima. Il network di contatti, dopo un limite iniziale a quelli personali, inizierà ad espandersi.Sono curioso di provarla quando arriverà qui in Italia, se mai ci arriverà. Mi interessa capire se l’anonimato facilita contenuti maggiormente stimolanti perché privi di quel senso di giudizio che spesso ci blocca dal postare sui social network attuali. Oppure si limiterà ad essere un ricettacolo di troll.Ad ogni modo come dice MG Siegler, i social network si stanno specializzando, frastagliando in tante piccole realtà in grado di fare meglio di qualunque altro quel particolare servizio. Facebook non basta più, oppure è troppo perché fa poco di tutto. Dal calderone con dentro qualsiasi cosa abbiamo bisogno del piatto di qualità sempre più spesso.…E infatti qualche ora dopo, arriva la notizia di un possibile anonimato anche su Facebook…