Benché abbia letto due volte il Signore degli Anelli e le sue appendici ricordavo ben poco delle vicende narrate ne Gli Anelli del Potere. La nuova serie Amazon si basa proprio su quest’ultime che non vengono raccontate in forma di romanzo, ma come appunti sulle ere precedenti narrate in quello che tutti abbiamo visto nei film di Peter Jackson.
La cifra stilistica de gli Anelli del Potere è potente e dritta al punto. Si basa su quanto contenuto nelle opere di Tolkien e non ci sono strani voli pindarici alla Game of Thrones. Il tutto incastonato in un universo che abbiamo imparato a conoscere ormai tanti anni fa e che ancora ricordiamo vividamente, fortunatamente ricalcato e ispirato senza scopiazzarlo in malo modo. Il mondo etereo degli elfi, la magnificenza delle montagne dei nani, i prati e i boschi de gli hobbit, l’aridità corrotta degli umani e il buio perenne degli orchi.
Ogni episodio sfiora la cifra record di quasi 60 milioni di dollari per una produzione completa della prima stagione di quasi un miliardo di dollari. Impressionante se si pensa che per i tre film del Signore degli Anelli sono costati ben meno della metà.
Per ora ho visto i primi tre episodi e al momento sembrerebbe che ci siano tutte le premesse per l’apertura di una nuova grande stagione per il fantasy in TV. Da una parte questo colosso che Amazon porterà avanti per almeno cinque stagioni, dall’altra le vicende narrate in Fuoco e Sangue nella nuova serie ambientata nel mondo di Game of Thrones, House of the Dragon (quest’ultima la guarderò soltanto dopo aver letto il libro dopo la cocente scottatura derivante dall’ultimo episodio del Trono di Spade).
Atmosfera giusta, musiche originali, costumi azzeccati, attori scelti con criterio e una sceneggiatura che per il momento sembra curarsi più dell’aspetto fantasy della storia che di qualunque altra esigenza.
Un paio di cose notate qua e là:
Gli elfi sembrano molto più umani. Soffrono e vengono uccisi con molta più facilità rispetto al Signore degli Anelli dove sembrano esseri sovrannaturali se messi vicino agli uomini, e soprattutto senza rughe.
L’OST di The Lord of the Rings mi manca tantissimo e la sua vivida iconicità è talmente tanto impressa nella mia mente che speravo sinceramente di ritrovarla in questo prequel temporale. Sobbalzo a ogni acuti di violìno sperando sia quello che pensò e invece no 🙁. E sebbene nella sigla iniziale de Gli Anelli del Potere venga scritto che le musiche di basano sul tema di Howard Shore, che ha composto il tema principale ma non le musiche della serie, purtroppo non riesco più a non associare alle vicende della terra di mezzo quel tipo di sound. Colpa mia.
La Galadriel giovane non ha lo spessore di Cate Blanchett mi spiace, stessa cosa dicasi per le protagoniste hobbit individuate. Sono poco caratterizzate rispetto a quanto troviamo nei libri e sembrano molto di più dei fauni o abitanti di un bosco fatato. Benissimo in nani e gli orchi, rimasti intatti nell’immaginario passato.
Ad ogni modo sembra proprio ci sarà da divertirsi, fino all’uccisione (apparente) di Sauron!
📲 Ieri è stata presentata la nuova gamma di iPhone. Semplicemente rinominati iPhone 14. Le due grosse novità sono state la sparizione, dopo due anni, di una versione Mini e la comparsa di una versione più grande per la versione base. La seconda arriva solo nelle versioni iPhone 14 Pro.
Bye bye notch, ecco che arriva Dynamic Island. Un bell’escamotage di design software per cercare di nascondere l’area della camera frontale e dei vari sensori e sfruttarla per un’interazione con l’utente abbastanza intelligente. Non ho paragoni con qualcosa di simile per Android, ma se ci fossero condivideteli pure.
Mi fa solo un po’ strano il voler giustificare con il potere forte del dollaro e l’inflazione il fatto che in U.S. i prezzi siano rimasti invariati perché il potere d’acquisto è più alto, mentre da noi in Europa, ad esempio, arriviamo anche ad aumenti che sfiorano i 500 a modello in alcuni casi.
he most surprising announcement of all, though, were the prices. Everything stayed the same! This was not what I, or close followers of Applelike John Gruber, expected at all. After all, Apple’s strategy the past several years seemed to be focused on wringing more revenue out of existing customers.
What this means is that in real terms Apple’s products actually got cheaper. Apple did, to be sure, raises prices around the world, but this is better explained by the fact the company runs on the dollar, which is the strongest in years; to put it another way, those foreign prices are derived from the U.S. price, and that price stayed the same, which means the price is lower.
🦘 Se penso al prossimo mese e mezzo ho i brividi. Sia per la mole di lavoro che mi sta stimolando tantissimo, sia per tutti i viaggi che mi (ci) attendono. Cercherò di condividerne qui i frutti piuttosto che altrove. Devo ancora raccontarvi della luna di miele in effetti, prima o poi arriverò a sistemare tutte le foto scattate e sarò pronto a farlo.
Apro gli occhi e non capisco ancora bene dove sono. So solo che è presto, fuori ancora è buio, guardo la sveglia e segna le 5. Solo dopo qualche secondo mi accorgo di essere nel letto di casa mia. Dopo 3 settimane.
Credo non sia mai accaduto in vita mia di aver dormito per così tanto tempo in un letto che non fosse il mio. Questo perché, anche quando lontano dalla mia abitazione principale per un periodo altrettanto lungo, spesso mi trovavo a trascorrere del tempo in una seconda casa, quindi pur sempre un ambiente familiare.
L’occasione è stata il mio viaggio di nozze, dopo quasi due anni di attesa. Due anni in cui tanti aspetti della nostra vita sono cambiati, turismo incluso.
Ora, non sono qui per raccontarvi i dettagli del mio viaggio (magari ci sarà un post ad hoc), ma solo per stendere qualche parola sul come ho viaggiato, quali sono state le mie aspettative e come esse siano cambiate in base alla disponibilità economica messa in gioco. Non ho potuto fare a meno di pensare al post di Roberta Milano suRoccaraso nel farlo. Nonostante non sappia nulla, o ancora meno, sul turismo.
Se c’è una cosa che questo viaggio mi ha insegnato è che il turismo è soprattutto una cosa, uno scambio di educazioni. Ricevute, da impartire, da condividere. Un pacifico scontro di culture tra chi ospita e chi è ospitato. L’equazione può funzionare soltanto se si è aperti con la mente, solo se si è pronti da una parte a comprendere le esigenze di chi ha fatto migliaia di chilometri per visitare un luogo remoto e inaccessibile a una grande percentuale della popolazione terrestre, dall’altra a non voler per forza ricercare la sensazione di essere a casa.
E sono tanti negli anni gli operatori del turismo che hanno puntato tutto sulla parola chiave: sentirsi come a casa. Ve le ricordate le pubblicità? Onestamente la reputo eccezionalmente lontana da quanto debba essere lo spirito di chi parte. Dovremmo ricercare tutto fuorché casa nostra, altrimenti non decideremmo mai di lasciarla dopotutto. Chi parte lo fa per lo più per due ragioni, rilassarsi o scoprire. E in entrambi i casi è spinto a farlo per trovare qualcosa che a casa propria non ha sufficientemente a disposizione: strutture, storia, geografia, cultura o enogastronomia.
Dovrebbe essere quindi piuttosto qualcosa come: il piacere di scoprire.
Ma come dicevo prima, bisogna necessariamente farlo con una mente aperta, attenta e motivata a voler conoscere e approfondire certi aspetti culturali, economici e sociali del luogo deciso di visitare. Perché? Semplice. Perché non è casa nostra!
Un esempio molto pratico? Il costo delle bottigliette d’acqua negli Stati Uniti. Entrando in un qualsiasi supermercato della California o delle Hawaii (i due Stati in cui sono passato in queste tre settimane), il prezzo di una bottiglietta d’acqua naturale può variare da 1,40 dollari più o meno per dell’acqua purificata per osmosi inversa (quindi non raccolta da una fonte alpina purissima per intenderci) fino a 12 dollari e passa per una confezione da 6 di 1lt. per dell’acqua purissima importata magari dall’estero.
Ora, se da turista non mettessi in campo la mia di educazione, e non parlo di buone maniere ma di conoscenza, farei soltanto dei paragoni con casa e sbotterei lamentandomi per dei prezzi altissimi per un bene primario come l’acqua. Mentre se provo a pensare alla difficoltà con cui, a differenza nostra, alcuni Stati non riescano a trovare acqua da fonti naturali, oppure al fatto che mediamente lo stipendio di un americano sia più alto del nostro ecco presto risolta l’equazione. Senza contare che basta spostare poco più in là lo sguardo e prestare attenzione a come ci siano fontanelle ovunque per poter ricaricare la propria borraccia.
Questo vale per l’acqua come per un ristorante, un hotel, una struttura ricettiva di qualsiasi tipo…tutto è dominato dalla stagionalità, dalla scarsità di alcune risorse e dalla legge della domanda e dell’offerta che, nella stragrande maggioranza dei casi, ha disponibilità per tutte le tasche e tutti i tenori familiari. Ma in un mondo dove le disparità saranno sempre più accentuate è inevitabile assisterne a sempre maggiori per poter accedere a servizi ed esperienze esclusive. Non possiamo lamentarcene, è il mondo che abbiamo costruito. Quello in cui viviamo oggi. In un baracchino di San Francisco magari pago un granchio poche decine di dollari, a Milano qualche centinaio.
È indubbio, l’equazione regge se anche dall’altra parte esiste una cultura dell’ospitalità e dell’accoglienza, un’educazione, in grado di soddisfare ogni portafoglio ed esigenza. Deve essere come la domenica di libero accesso ai musei per usare un metro di paragone. Il luogo che ha deciso di diventare meta turistica deve essere in grado di potersi mettere a nudo, lasciarsi scoprire senza timore. Ecco questa cosa è terribilmente complicata, perché vanno a scontrarsi il più delle volte interessi pubblici e privati che il più delle volte danneggiano non soltanto il territorio in cui questi attori agiscono, ma soprattutto l’ospite se non incanalati in uno sforzo comune.
Questa ampia introduzione mi è utile per raccontare meglio il come io abbia viaggiato rispetto al solito. Con 12 voli presi in 3 settimane di cui 5 in business class (su quelli di lungo raggio), l’aver soggiornato in strutture con almeno 4 stelle in su, aver potuto approfittare di amenities spicciole come un frigobar illimitato sono stati addendi di una somma piuttosto non comune rispetto al mio tenore di viaggio tradizionale, facendomi per la prima volta provare un turismo di fascia superiore al quale normalmente non sarei in grado di accedere.
Ed è molto facile scambiare questo livello per un nuovo standard a cui abituarsi. Chi non vorrebbe affrontare un viaggio aereo di 10 ore senza potersi più sdraiare completamente ora? Concettualmente adesso lo trovo incomprensibile. Perché non possiamo tutti viaggiare in questo modo? Eppure tra un mese tornerò a farne uno seduto in piccionaia.
È con le aspettative che dobbiamo scontrarci. Quelle foto che non corrispondono al vero, uno standard settato troppo alto, una serie di recensioni lontane dalla realtà o dall’altra parte con un turista che vuole la pasta al sugo e le lenzuola pulite ogni giorno, i distruttori di arredamenti o di arredo urbano, e potrei andare avanti con entrambe le liste all’infinito.
Per questo reputo così importante lo scambio di educazioni. È quel punto focale d’incontro tra le aspettative di chi parte per un sogno e chi quel sogno spera di renderlo reale.
Sapersi adattare a ciò può cambiare totalmente il come si viaggia, non importa se in business class o in bicicletta, il bagaglio che si riporta a casa sarà infinitamente leggero mentre per chi resta inizia un circolo virtuoso per condurre lì anche altri sognatori.
Anche io come Giovanni ho deciso pian piano di migrare tutto i miei dati fuori da Dropbox verso Google Workspace come già avevo raccontato qui. Tuttavia l’ansia perenne di perdere quanto di più prezioso mi accompagna da sempre e pertanto ero alla ricerca di un backup sicuro dove far risiedere tutto quello che c’è su Google Drive, che avesse un aggiornamento periodico e per cui mi posso dimenticare della sua esistenza fino a quando si presentasse una reale emergenza di perdita dati.
Dopo aver studiato bene la scena ho notato che proprio pCloud ha un’interessante funzionalità che nessun altro ha ancora a disposizione dei servizi rivolti all’utenza consumer (o almeno non sono riuscito a trovarne altri a meno di fare tutto manualmente). Ovvero la possibilità di eseguire backup periodici semplicemente accedendo al proprio account Google direttamente da pCloud. Questa è decisamente una manna, visto che ultimamente sono preso dal panico di perdere anni di documenti e dati sensibili.
Ho impostato così il mio flow. Un SSD LaCie rugged da 4TB collegato al mio MacMini dove risiedono tutti i dati, da qui c’è sync perenne su Google Drive che rispecchia fedelmente tutto il mio archivio. Il passaggio successivo è stato, appunto, acquistare anche io uno spazio lifetime su pCloud e semplicemente agganciarci Google Drive.
Un paio di annotazioni:
Il backup ha uno schedule mensile e purtroppo non si può cambiare questo timing
Su file molto larghi, nel mio caso sto facendo un backup di quasi 1.5TB, ci possono volere più giorni per completare l’operazione. Tuttavia non impatta in nessun modo sulle attività produttive
La cosa molto comoda è che pCloud offre anche un backup per Google Foto, che nel mio caso a sua volta pesca dalle foto di iCloud, creando anche qui una ridondanza che mi mette il cuore in pace.
pCloud ha un’interfaccia molto basica, ma davvero rapida. Facile da usare fa della sicurezza svizzera il suo punto di forza e il mercato ne riconosce l’affidabilità. Per cui mi sento di consigliarti caldamente pCloud, qui trovi il LifeTime Plan, sicuramente molto più conveniente che pagare ogni anno.
Il mio digital decluttering prosegue come un treno in corsa su Red Dead Redemption 2. Oggi è il momento di salutare il mio Apple Watch. Ne ho posseduti due modelli negli ultimi anni, nonostante ciò non ho mai stretto un vero rapporto di dipendenza. Mi dava e mi danno tremendamente fastidio tutte le notifiche, quindi mai utilizzata veramente come funzionalità, anche perché se lasciate attive drenano la batteria in maniera pazzesca. Sì, pratico e utile per il monitoraggio dell’attività sportiva, i passi compiuti, le calorie bruciate. Ma a parte queste piccole cose non l’ho mai sfruttato a dovere e non ne ho mai sentito il bisogno. Non ci ho mai scritto messaggi, non ci ho mai fatto chiamate tantomeno mi sono mai ricordato di utilizzarlo come wallet. Lo utilizzavo forse di più per le previsioni meteo, per controllare Sonos dal polso e molto di rado le pulsazioni del battito cardiaco.
Sono più da orologi veri probabilmente, vecchia tecnologia svizzera automatica con ricarica perpetua con movimento del polso e nessun consumo di corrente. Tant’è che la cosa preferita del mio Apple Watch rimane il bracciale in Milanese style e i vari quadranti personalizzabili. Chissà a cosa toccherà dopo.
Non amo per nulla i gatti. Non ne sono impaurito, ma sicuramente mi lasciano parecchio diffidente. Io non mi avvicino a loro e loro non si avvicinano a me. Un patto non scritto. Sicuramente sono più una persona canina.
Tuttavia, grazie al nuovo abbonamento PlayStation Plus Premium sottoscritto (poi magari più avanti dedico un post ad hoc a questo argomento) ieri ho iniziato a giocare Stray gratuitamente.
Stray è un’avventura felina nel vero senso del termine. Controlliamo di un gatto randagio arancione che con il suo gruppo di amici fanno parkour all’interno di un’ambientazione post apocalittica dominata solo dalla vegetazione. Dopo pochi minuti di intro il nostro precario equilibrio ci fa cadere in un mondo completamente diverso.
Città Morta
Piombiamo in una città chiusa al mondo esterno e abitata soltanto da robot umanoidi impauriti da quella creatura pelosa mai vista prima e appena entrata nel loro mondo. Ma saranno proprio i robot ad aiutarci nell’impresa di risalire verso l’Oltre e ritornare al mondo esterno inabitato ormai da secoli. A bloccare il nostro cammino però i temibili Zurk, piccole creature simili a topi assetati di linfa vitale da cui dobbiamo cercare di sfuggire per non vedere la nostra vita risucchiata.
Città Morta trasuda Love, Death & Robots da tutti i pori e la sua decadenza traspare perfettamente da una magistrale regia e fotografia, anche se talvolta la gestione della camera si impalla su angoli morti vicino ai muri o alcuni tetti.Bene la colonna sonora ambient e molto cyberpunk anche grazie al sapiente uso delle radio sparse qua e là nella mappa con le quali possiamo interagire e cambiare stazione. Meno entusiasmante l’utilizzo del DualSense, impiegato soltanto in alcuni momenti di svago.
Defezioni perdonabili al team francese BlueTwelve Studio al loro titolo d’esordio. Il gioco l’ho trovato estremamente rilassante, le meccaniche spaziano dal platforming puro all’avventura concentrandosi prettamente sull’aspetto narrativo dove si viene guidati negli spostamenti con degli aiuti grafici a schermo abbastanza basilari.
Il gioco
Gli enigmi e i puzzle game presenti in gioco non sono per nulla impegnativi e lasciano spazio sicuramente al puro godimento dell’incedere del nostro amico felino verso la meta finale. Un percorso in cui non saremo soli, ad accompagnarci un fidato drone androide, B-12, un aiutante speciale nel mettere insieme i pezzi di un passato ormai lontano, ma fondamentali per riconquistare la libertà perduta.
Stray ha una durata variabile dalle 5 alle 9 ore, dipende quanto vogliate esplorare e collezionare. Io sono circa a 3 ore di gioco e me la sto prendendo abbastanza con calma, anzi, ho decido di streammare tutto dal mio canale twitch se volete seguirmi e farmi compagnia durante le live (perdonatemi sono ancora newbie). Una piccola perla che tutti dovrebbero giocare, anche solo per cimentarsi in quelle cose tipiche da gatto come strusciarsi contro le gambe di un robot, miagolare o rifarsi le unghie su tappeti e divani.
Dopo qualche mese dall’inizio dell’anno ho finalmente raggiunto un compromesso decente con la schermata home del mio iPhone.
Rispetto agli anni passati ho eliminato la parte di Fitness perché sto pensando di vendere il mio Apple Watch a favore della mia collezione di orologi analogici. Al suo posto un widget sul meteo, al mattino imprescindibile per sapere se posso uscire in moto per recarmi al lavoro. La seconda grande new entry è Google Calendar, dopo essere definitivamente passato a Google Workspace.
Ho ripristinato dopo quasi due anni sia Squarespace, visto il recente cambio, sia Bear con la quale mi trovo benissimo nel buttare giù velocemente le idee per nuovi post per poi ricopiarli velocemente e già editati su Squarespace.
Sono tornato alla versione classica di Feedly, che per fortuna mantengono ancora in vita è aggiornata, e rimane ancora oggi il miglior reader RSS dalla morte di Google Reader.
Clear è la più semplice e funzionale app che utilizzo da anni per creare liste di qualsiasi tipo, benché principalmente siano legate alla spesa.
Trakt è invece l’app ufficiale dell’omonimo servizio per cui pago un abbonamento annuale ormai dal 2016 e grazie alla quale scopro e tengo traccia di tutti i contenuti streaming visti.
L’area social è purtroppo ancora troppo ricca di app che non utilizzo se non per lavoro e per questo ancora non cancellabili.
Per il resto mi pare tutto invariato. Anche se odio a morte quello spazio inutilizzato alla fine viste che utilizzo solo una pagina e non compaiono i classici pallini per indicare la posizione in cui ci si trova
Non ti ricordavo così. Sono state sufficienti davvero pochissime ore per sentire un’accoglienza e un calore che a Milano non ho visto e sentito forse mai. Al di là della temperatura fantastica, 21 gradi costanti tutto il giorno a metà luglio (non so se è un’anomalia o d’estate sia sempre così, nel caso si medita il trasferimento qui), l’altro ieri pomeriggio mi sono perduto camminando tra i canali e non è stato difficile trovare, in più angoli della zona in cui pernotto, gruppi di persone dello stesso palazzo o forse quartiere buttare giù tavoli e sedie e farsi un aperitivo di comunità. Ma quando mai vedi ancora una cosa simile in Lombardia? Forse 30 anni fa si facevano queste cose. Tra l’altro almeno un paio di loro ci hanno invitato a condividere con loro il cibo chiedendoci se avessimo già mangiato.
Non so se costume locale, oppure fortuite casualità. Ma mi ha fatto sentire bene.
Altri piccoli grandi dettagli notati. Il primo, le tipiche latitudini nordiche fanno si che alle 22 sembri ancora lontana l’ora del tramonto. Ho dovuto tirare per bene le tende oscuranti della mia camera perché c’era ancora una bella luce. Tutto a favore della socialità e del volersi vivere la città fino all’ultimo.
Secondo dettaglio, non banale, i rumori di fondo. Il tappeto sonoro della città è completamente diverso dalle nostre. C’è meno traffico di auto e prevalgono solo suoni di campanelli o di pedalate. In più tante delle auto in circolazione sono già elettriche. Se non presti particolare attenzione al selciato, gli unici rumori fastidiosi sono quelli della ferraglia dei tram o di moto con motori troppo rombanti. Non so quanto sia ingiusto paragonare le due città. Qui ci sono poco più di 900.000 abitanti, mentre a Milano 1.3 milioni, con una sproporzione in termini di superficie a svantaggio di quest’ultima di 189 km² vs 219 km² della capitale olandese, ma tant’è in un’ora e trenta minuti di aereo sembra di entrare in una dimensione parallela dove le brutture sono state nascoste molto bene sotto un grande zerbino chiamato evoluzione civica.
Tutti sembrano, senza retorica, felici della vita e lo mostrano senza fatica apparente. E no, senza scadere in battute sulle droghe leggere legali. Ma mi manca questo spirito positivo in Lombardia. Forse a Milano abbiamo lo sguardo volto altrove, e ancora troppo poco concentrato sulla violenza dilagante e sui problemi di sicurezza da risolvere a stretto giro prima di pensare a una mobilità urbana senza auto o ospitare 170 nazionalità diverse in grado di convivere pacificamente.
Buongiorno Amsterdam, ti saluto una domenica mattina prima di tornare in Italia e ti invidio tanto.
Come scrivevo nei giorni passati sto cercando di eliminare tutto il superfluo tra i miei servizi digitali. Ho fatto anche due conti sul mantenimento di alcuni di essi che purtroppo arrivano a costare qualche centinaia di euro ogni anno, tipo questo mio blog. Ho cercato qualche alternativa più economica, perfino gratis, ma sono giunto alla conclusione più ovvia: se sto pagando un motivo ci sarà. Poche opzioni di personalizzazioni, la resa grafica non mi soddisfa come riesce a fare ciò che ho creato qui, sia Medium che Substack non hanno più la possibilità di postare da mobile, il che mi limiterebbe questa estate durante il viaggio transoceanico che ci attende. Quindi sono positivamente rassegnato al fatto di sborsare dei quattrini di valore a WordPress.
📱 ☁️ Oggi vi propongo due articoli molto distanti tra loro ma vicini per l'oggetto in questione: il cellulare. Il primo di The Verge con il quale sono particolarmente d'accordo (benché non abbia ancora testato bene una Steam Deck e non mi sia ancora arrivata l'email per confermarne l'ordine) concordo su ogni aspetto della difficoltà di giocare sul cloud da telefonino. Soprattutto in mobilità e non a casa, dove bisogna per forza di cose portarsi dietro un accrocchio che funga da controller, ma soprattutto essere sempre in un punto in cui la connessione sia sufficientemente decente. Senza contare la perdita di diottrie in situazioni in cui il dettaglio su schermo può fare la differenza.
But the worst part of cloud gaming on a phone is the controls. Most services include an overlay of touchscreen controls. The controls themselves fight for screen real estate, and, if you’re like me and have never gotten the knack for on-screen digital joysticks, you’ll find yourself frustrated. Accessories like theRazer KishiandBackboneare supposed to make the phone a better tool for that kind of hardcore gaming, and I’ve got a Kishi I’ve gamely used with more than one Android phone, but I still have to remember to actually bring the thing with me. The Kishi isn’t something that just hangs out in my purse or gets automatically added to my pocket when I leave the house. And, if I’m having to remember to bring a whole little controller dongle to make cloud gaming on my phone even remotely enjoyable, then I’m not really actually able to game anywhere at any time. I’d probably just rather have a whole separate device.
📱 🎤 Il secondo invece sul sequestro preventivo dei dispositivi mobili ai concerti di Jack White. Un metodo estremo? Forse. Ma con l'avanzare degli anni mi trovo sempre più d'accordo. Recentemente siamo stati a vedere i Green Day con i The Weezer e la settimana successiva i Royal Blood con i The Amazons. Soprattutto nel secondo concerto, al chiuso, i telefonini mi hanno disturbato non poco la visuale. Io, incallito registratore in passato, mi sono riscoperto totalmente disinteressato a registrare video mentre ho goduto appieno della performance.
But having survived the show, I have to attest that Jack White has a point. We’re all sick to death of having the person in front of us at a gig decide to film the best bits from overhead or stream the whole show to their dog. It’s not just a distraction and annoyance for us – it’s a waste of a great in-person live music experience for them too.
The pouches themselves opened at the touch of a magnetic button on the way out, so venues could quite easily pepper them along exit routes to let people release their precious zombie boxes themselves, then drop the pouch in the buckets provided – because who the hell wants to steal a straitjacket for a mobile phone (unless you’re planning an intervention on Darren Grimes)? In a world where mankind has realised the impossible dreams of space travel and Deliveroo wine, it must surely be possible to concoct a machine that releases everybody’s phones remotely as the houselights go up, too. Although that might lead to innumerable injuries as people fail to notice all those flying drumsticks.
The entire live experience might be improved, too, if bands feel that they can treat us to previews of new albums without the unreleased songs getting splashed all over social media within minutes.
In questa caldissima mattina di inizio luglio mi sono recato all'ufficio postale del paese. Obiettivo inviare una raccomandata con ricevuta di ritorno per contestare una multa ricevuta per eccesso di velocità.
Al di là di aver scoperto solo al rientro che avrei potuto fare il tutto comodamente seduto da casa, dopo aver varcato la soglia e settatomi in modalità osservatore antropologico mi sono accorto di come ancora le persone (tante e per forza a questo punto devo includere anche me) vadano in posta per le ragioni più disparate, soprattutto per richiedere tutta una serie di servizi gestibili in totale autonomia e per i quali non vi è nessuna necessità di recarsi presso un ufficio sovraffollato di pochi metri quadri a queste temperature.
C'è chi pagava la TARI, chi prelevava allo sportello anziché al bancomat esterno, chi ancora pagava le bollette delle utenze domestiche. E no, non c'erano anziani a eseguire queste operazioni, ma persone che a una rapida occhiata avranno avuto forse a dir tanto 10 anni più di me. Piuttosto preoccupante e sintomatico di una ancora scarsa educazione digitale su cui c'è ancora da far tanto, sia da un punto di vista di apprendimento che di usabilità dei servizi online costruiti per assolvere questo tipo di compiti.
Ma ecco, mentre stavo lì in totale estasi sociale, mi sono accorto di iniziare a percepire un discreto freddo corporeo. Nonostante gli oltre 35 gradi esterni nell'ufficio postale si sarebbero potuti stoccare dei bovini per il macello. E per forza, non so quale dei due termostati regolasse lo split sopra le nostre teste, ma tra 20 e 21 gradi non si scappava.
Ma l'ufficio postale non è un comune ufficio pubblico dove si dovrebbe rispettare questa normativa del maggio 2022 dove si impone il tetto dei 25 gradi?